So ancora chi sono? E piango!

Anche stamattina era fredda, faccia scura, distaccata. Nervosa. Per tutta la notte sono rimasta al bordo del letto, non osando avvicinarmi.

Aspetto, ragiono, chiedo in genere come va, come mai è così: le solite preoccupazioni sui soldi, sulle mille cose da fare e il tempo che manca. Non sono per niente convinta e, tornate a casa dal mercato inizio a parlare.

— Sento che ti stai nuovamente allontanando. Ti ho disturbata con il discorso sul doppio fallo? Sai vero che non era una richiesta definitiva ma solo una possibilità, se mai ti andrà di farlo? So che dovrei imparare a stare zitta e tenermi un po di cose per me.
— È che, lo sai, non mai fatto sogni erotici con altre donne. Anzi se fossero entrate nei sogni, mi sarebbe proprio passata la voglia. Il pensiero di farlo con una donna mi… disgusta. E quando sei tornata a casa disperata perché al lavoro ti avevano chiesto di tagliarti i capelli, quando ti ho vista in crisi, quando ho capito la tua sofferenza nel presentarti al lavoro da uomo ho capito che sei donna. Donna! E io finora, per quanto lo sapessi, forse ho continuato a vederti come l’uomo di cui mi sono innamorata. Ma ora vedo solo la donna che sei diventata. E io non sono attratta dalle donne, non sono lesbica.
— Ma, se… Ora ho bisogno di mostrarmi come donna, perché ancora non lo sono, non completamente. Quando sentirò di esserlo davvero non avrò più bisogno di mostrarlo, di truccarmi, di cercare di femminilizzarmi. Lo sarei comunque, per me. Potrei essere più mascolina e… magari potrei piacerti ancora?!
— Non lo so.

Seguono lacrime, mie, sospiri, qualche carezza e qualche bacio. Gliene chiedo uno bello. Me ne concede due. Poi si ritira.
— Ti dà fastidio?
— Sì!
— Ma sono le stesse labbra di sempre…
— Lo so, ma…

Tempo di preparare il pranzo e poi di andare al lavoro, per me.
Per fortuna quando sono con il collega o ho da fare mi distraggo. In tutti gli altri momenti, appena penso a M. – e a F. – mi viene da piangere.

Al ritorno M. mi aggiorna sulla giornata: doveva andare dalla sua dottoressa per un controllo e sapevo le avrebbe parlato di noi e del problema con F., le ha consigliato una terapia di famiglia, che forse fanno anche al CPS di Laveno.

Passando anche dai suoi genitori, mi aveva chiesto se poteva parlargliene e ovviamente le ho detto di sì: ho rimandato troppe volte e ora, lavorando sabato e domenica, non so quando ne avrò ancora modo.

Ne sono rimasti molto sorpresi – io pensavo che almeno mia suocera si fosse accorta di qualcosa – e piuttosto sconvolti, soprattutto preoccupati per la figliola, la seconda con “problemi” con il marito.

Tanto per cambiare, sono scoppiata nuovamente a piangere e credo di aver scoperto cosa sia un attacco di panico.

Ma quanta sofferenza ho causato? Quanto male sto facendo alle persone che amo?

M. mi dice che non è vero che ho fatto soffrire tutti. Che mio fratello e tanti altri l’hanno presa bene. Ma, rispondo, le persone che amo e cui tengo veramente no! Ribatte che lei ha avuto dieci anni per abituarsi – quindici in realtà – e che a gli altri serve ancora un po’ di tempo.

Quale che sia l’evoluzione io soffrirò: per quello che sono, non sono, sarò o non sarò; per l’amore che perderò; per – last but not least, direbbero gli inglesi – le sofferenze che ho causato.

L’ho già detto, credo, anche se forse solo a M.: vorrei poter tornare indietro, di quindici anni, e prendermi a sberle per aver indossato il primo reggiseno.
Vorrei che tutto questo fosse causato da una psicosi e che bastasse qualche pillola, anche qualche scossettina, per riportarmi alla realtà. Poter chiedere scusa – sempre che possano essere accettate – e tornare nel mio ruolo di genere, di maschio etero-normato.
Ma credo siano molto più psicotiche quest’ultima frase e la teoria del gender, e anche tutto questo mio continuo piangere.

Lo so, non si può avere tutto. Ma sento di essere sull’orlo di perdere tutto per non ottenere niente.