Come forse sapete, lavoro per una società di servizi in appalto presso un ente pubblico.
Dopo il collega, mi sembra corretto – veramente sento che devo – dirlo anche alle persone con cui lavoro quotidianamente, anche se in realtà non c’è alcun rapporto formale, tanto meno gerarchico.
Più in là verrà l’azienda che mi paga lo stipendio ma con cui non ho ancora avuto rapporti personali diretti, salvo ovviamente il mio collega e – una volta – il capo-area che ha avvallato la mia assunzione. Tutto sommato sono tenuta a comunicarlo solo all’ufficio personale e solo quando cambierò i documenti. Spero di farlo prima, ma solo per il mio personale senso di correttezza.
Ero indecisa se partire dal Dirigente o dalla Vice – con cui sento più confidenza – ma ho scelto di procedere per linea gerarchica quindi, stamattina, chiedo cinque minuti al Responsabile dell’Ufficio.
Parto con il mio racconto, breve ma di un lungo periodo, della sofferenza, del percorso psichiatrico – che esclude patologie mentali – e psicologico di sostegno e accompagnamento per arrivare alla diagnosi di disforia di genere e all’inizio della terapia ormonale e della mia necessità di vivere, apertamente, come donna, rassicurandolo comunque sulla mia sobrietà durante le attività lavorative.
“Spero non ci siano problemi e che non cambi il nostro rapporto”.
“Sei felice?”, mi chiede.
“Sì, ora sì!”.
“E allora va benissimo così, non ci sono problemi… Anzi se dovessi avere problemi nel servizio o con l’Amministrazione dimmelo che ci penso io”.
***
Più tardi riesco a parlare anche con gli altri non-colleghi: la Vice, uno dei due funzionari – l’altro è in vacanza – e l’impiegata.
Stesso racconto, anche se più sintetico: avete idea di quanta energia emotiva serva per un coming-out? E per due in un giorno?
Ancora una volta ho una grande sensazione di accoglienza!
L’impiegata mi abbraccia virtualmente – maledetto covid! – e mi ringrazia per la condivisione, riconoscendo il coraggio e la forza che ci vuole.
La Vice è altrettanto solidale e, più praticamente, mi garantisce supporto immediato in ogni eventuale situazione critica – dovuta alla transizione – durante il sevizio. E mi dà il benvenuto nel mondo delle donne, imponendomi l’uso del bagno femminile.
L’unico uomo presente è comunque molto accogliente e positivo.
Seguono molte domande, personali – di cui si scusano nel caso siano troppo indiscrete ma non c’è problema – a cui rispondo volentieri, raccontandomi.
Notano che ormai parlo solo al femminile. Mi chiedono come devono riferirsi, rispondo che il nome che ho scelto è “Chiara”, e il perché, che preferisco che si rivolgano a me al femminile… ma che so che nei primi periodi non sarà facile e che non ci saranno problemi se si confonderanno, che non sarà neanche facile finché si vivranno situazioni miste, con persone che ancora non sanno di me e che in quei contesti e nel frattempo possono troncare il mio nome anagrafico per renderlo neutro.
Intanto, già mi parlano al femminile!
Sempre più libera,
sempre più leggera,
sempre più donna.
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Nota: qui e in altri articoli mi riferisco alle persone coinvolte utilizzando i loro ruoli invece dei nomi. Preferirei sicuramente usare i loro nomi ma entrano in questo blog senza invito e, soprattutto, molto probabilmente, senza saperlo e quindi senza avermi concesso una liberatoria. Per questo, e per rispetto della loro privacy, credo sia meglio nominarli solo in modo generico.