Senza respiro, senza (la mia) identità

Stanotte sono stata malissimo: ho avuto una crisi respiratoria che è durata per circa quindici minuti, un’eternità quando ti sembra di inspirare il vuoto.

Forse avrei dovuto chiamare un’ambulanza ma non ero pronta a un ricovero notturno e poi, c’è sempre qualcunə che può avere più bisogno di me.

Non mi spaventa la morte anche se così, ammetto, sarebbe orribile.

Al mattino però chiedo a M. di non andare al lavoro. Siamo entrambe vaccinate ma certe crisi, di questi tempi, fanno pensare al Covid, no?! La crisi è passata ma respiro ancora male, vale la pena di rischiare che lei vada in ufficio?

Poi sono debolissima, non ho chiuso occhio dalla crisi, circa dalle 3 del mattino. E credo di aver bisogno di lei per andare, eventualmente, in PS – prometto: prima o poi mi farò meno remore sul chiamare i soccorsi!

Al mattino chiamo la guardia medica – continuità assistenziale, ora, ma con guardia medica ci capiamo prima, vero? – che ovviamente è chiusa – eggià, io non volevo disturbarli di notte, e solo di notte e nei fine settimana lavorano! – quindi provo col mio dottore anche se non è orario. Mi rassicura sul covid e mi invia al PS.

Non devo essere messa benissimo perché dopo un primo controllo di pressione, temperatura e saturazione l’infermiera mi fionda in monitoraggio ECG. Faccio appena in tempo a darle il mio foglietto con terapia, anamnesi e allergie: ebbene sì, sono una paziente esperta!

In cima all’anamnesi ho messo “disforia dell’identità di genere”.

Per me non è certo una malattia, non mi sono MAI sentita malata e preferisco di gran lunga incongruenza di genere! Ma ho preso spunto da uno degli ultimi referti in cui la dottoressa l’ha messa in cima al lungo elenco. La mia speranza è ottenere la concessione di una sorta di alias o, almeno, una neutralità di genere.

Negli ultimi mesi ho avuto sempre riscontri positivi, rispetto la mia identità, dal personale medico e paramedico della mia ASST. Questa volta no. Quasi per niente.

L’infermiera al triage ha capito subito ed è stata gentilissima, l’infermiere al tracciato ECG non ha avuto reazioni al mio reggiseno se non per chiedermi si sollevarlo per mettere gli elettrodi.

Da lì in poi, però, chi ha letto la mia cartella si è rivolto a me al maschile. Chi mi vedeva senza averla letta, in particolare lə pazientə, mi ha invece sempre considerata al femminile.

Solo l’infermiera che mi ha accompagnata in sala visita – sì, ho avuto l’onore della scorta dal triage alla sala visita, senza passare dall’attesa interna: vantaggi da VIP con il bollino giallo – quando alla richiesta del nome le ho specificato che preferirei essere chiamata “Chiara” si è dimostrata più sensibile, scusandosi di dover usare il mio nome anagrafico sui documenti. Poi mi sembra sia rimasta abbastanza sul neutro.

Ma ad ogni passaggio, infermiera – dottore – radiologia e ritorno ti chiedono cognome, nome, e data di nascita. Per l’età vabbe’, sono vecchia, ci ho fatto l’abitudine… ma sul nome, ogni volta è dura da mandare giù e pronunciarlo.

Esistono, finalmente, le carriere alias nelle università. In attesa di avere un iter più veloce per la riassegnazione anagrafica, non potremmo introdurre gli alias anche per la tessera sanitaria – come ha recentemente fatto la Spagna –, per gli abbonamenti ferro-tranviari e per altri servizi – per non parlare del green-pass – per i quali chi controlla non ha normalmente necessità di conoscere l’identità reale dellə titolarə?

Se poi un medico non è in grado di riconoscere il sesso biologico di unə pazientə, al di là dei documenti – se e quando dovesse essere veramente necessario – forse la medicina non è esattamente il suo mestiere.

Il dottore a cui mi hanno assegnata in PS direi proprio che non ha fatto alcuno sforzo, continuando a rivolgersi a me al maschile, per quanto io abbia sempre e solo risposto e parlato al femminile, pur mantenendo cortesia e gentilezza.

Insomma se devo valutare la mia struttura sanitaria, oggi potrei dare fra otto e nove, per competenza e assistenza, ma solo un sei meno meno scarso per il riconoscimento delle identità di genere.

A passeggio

Una volta andavamo spesso, a camminare insieme.

Una volta avevo un altro fisico. Un altro passo. Sono arrivata a fare, a piedi, il giro completo della Ciclabile del Lago di Varese, 28 Km.
Poi sono successe tante cose, ma questa è un’altra storia, e qui si parla della mia transizione.

In tanti anni di disoccupazione, ogni volta che potevo, sono sempre andata a camminare… da disoccupata lo facevo spesso – ginocchia permettendo – e ogni volta che poteva, veniva anche M. con me.
Una volta ero io a rallentare il passo, ora arranco… ma, l’ho già detto: questa è un’altra storia!

Fatto sta che circa due anni fa ho finalmente rincominciato a lavorare e, per lavoro, cammino normalmente quattro, otto ma anche dieci e passa Km al giorno.

Contemporaneamente la nostra vicina, grande amica di M., voleva iniziare a camminare – camminare fa bene, tanto!!! – e quindi hanno iniziato a camminare loro due per piacere/salute e io per dovere/salute.

Chiedo nuovamente scusa per la lunga parentesi privata ma mi sembrava necessaria per spiegare come mai stamattina mi sia sembrato estremamente piacevole tornare a camminare con M.

Sì, è già capitato, in questi anni, di fare passeggiate insieme, ma stamattina ero io a soddisfare una sua necessità, forse solo volontà… comunque ad accompagnarla. Ed è stato piacevole tornare a camminare insieme. Nonostante il mio passo, stanco. E che in pomeriggio, per lavoro, saranno almeno altri 8 Km.

Da tempo avremmo – avrei! – bisogno di fare una lunga, rilassata, profonda riflessione di coppia. Ho alcune domande, in particolare per lei, e spunti di riflessione per tutta la famiglia.

Lo so, bisognerebbe sempre godersi il momento. Stiamo passeggiando insieme: è bellissimo, anche se, ormai, tenersi per mano, è un lontanissimo ricordo.

Entra in argomento della sua compagine del treno. Il solito più e meno. Io, però vado spesso ad accompagnarla e a prenderla al treno. Da anni ci vado, a volte, con il mio solito filo di trucco. Da tempo ci vado anche in gonna. Finora non sono mai scesa dalla macchina, con la gonna. Le chiedo se ha parlato di me al suo gruppo di viaggio. “No. Magari con X e Y potrei dirlo, ma sai che Z è leghista”.

“Ah! Quindi è meglio se non scendo dall’auto, se vengo in gonna?”.
Silenzio. Ma siamo già uscite insieme, con me in gonna, anche a fare la spesa.

A questo punto affondo: “Ma al lavoro parli di me come ‘Chiara’?”.
Apro un’altra parentesi personale: ho lavorato anni fa, come operaia, lei contabile, nella stessa ditta, anche se allora ero “operaio”.

“Eh, io l’ho detto solo alla famiglia – i titolari – non so se l’hanno detto agli altri”. È una ditta familiare, ci sono altri due operai e quello che era il mio capo-officina, allora, che è appena ritornato in ditta “parla dei ‘ghei’ come ‘quelli là non li capisco’”. Ai tempi mi stimava. Ora che sono lesbica?

“Forse sarebbe più facile introdurmi se parlassi di me come ‘Chiara’”.
“Sì, forse. Potrei… Ma, sai, faccio fatica a riferirmi a te così, dopo vent’anni, e non credo che, no, anzi: non riuscirei mai a rifermi a te come ‘mia moglie’”.
“Be’, chiamami come vuoi, basta che non ti riferisca più a me come ‘tuo marito’, questo mi ferirebbe molto, mi farebbe molto male”.
“Ah!”.

Ok, camminiamo.

Anche perché già così sono arrivata con poco fiato alla macchina, e oggi pomeriggio mi aspettano altri chilometri, al lavoro.
E le domande sarebbero troppe.

A cominciare da: “mi ami ancora?”, già chiesto l’altra sera con un “sì”, secco, istantaneo come risposta.

Per poi finire con un, forse melodrammatico: “ma sei sicura di non voler sciogliere il matrimonio e rimanere in unione?”.

Perché, te l’ho già detto: nell’unione civile, magari non sarò ufficialmente tua “moglie”, forse neanche la tua “coniuge”, ma sarà – e questo te l’ho spiegato bene! – un’unione omosessuale. Sei davvero sicura? Io sono lesbica, tu no!
Ti amo. Tu?
Ti vergogni di me?

Sì, abbiamo bisogno di parlare e, nonostante ripetuti inviti, non leggi queste pagine, neanche quando proposi di stamparle per te.

Lasciamo maturare il pargolo, poi partirà per le vacanze e avremo tempo e modo di parlare. Spero.