Signora, veramente!

È successo. Prima o poi doveva succedere.

Lo so, non dovevo. Ma dopo l’udienza – se così possiamo chiamarla – non sopporto più che venga messa in dubbio la mia identità di genere: IO SONO UNA DONNA! Punto, esclamativo!

Ho appena compiuto due anni di lavoro, ieri. Lavoro nel pubblico, in appalto, con un’utenza piuttosto vasta e, lavorando in località turistica, anche molto internazionale. La maggior parte dell’utenza, forse solo escludendo chi mi ha conosciuta all’inizio di questo mio lavoro, ormai si rivolge a me al femminile, nonostante la divisa.

Verso la fine del turno sto iniziando un processo sanzionatorio. Mentre procedo arriva l’utente e mi fermo: il suo arrivo, di fatto interrompe il mio procedimento, non posso proseguire.

La signora, con figlia, è molto gentile, si scusa e dichiara di essersi resa conto del fatto vedendomi.
Mi chiede se può pagare subito.
La rassicuro: “guardi, ho già annullato tutto!”.
“Ah, quindi mi arriva a casa?”.
“No, no, non arriva niente. Ho annullato la procedura”.
“Oh, ma è davvero gentilissimo!”.
E qui mi è scappato: “Veramente: gentilissima!”.
“Ah, mi scusi, davvero gentilissima!!!” con un largo sorriso.

Ora non crediate che basti un sorriso o un po’ di gentilezza e un sorriso per intenerirmi e farmi su. Ma vi ricordo che sono nata sotto il segno del leone e, per quanto io creda poco negli oroscopi, ci vuole poco a farmi estrarre gli artigli se mi fate arrabbiare.

Nel titolo ho usato “signora” che è un termine che non mi piace, perché le signore sono quelle che non devono lavorare per vivere – citando un film di cui non mi ricordo mai il titolo, forse declinato al maschile – ma non avrebbe fatto lo stesso effetto di “Gentilissima, veramente”.

Ma davvero posso non citare Loredana Bertè, a questo punto?

Senza respiro, senza (la mia) identità

Stanotte sono stata malissimo: ho avuto una crisi respiratoria che è durata per circa quindici minuti, un’eternità quando ti sembra di inspirare il vuoto.

Forse avrei dovuto chiamare un’ambulanza ma non ero pronta a un ricovero notturno e poi, c’è sempre qualcunə che può avere più bisogno di me.

Non mi spaventa la morte anche se così, ammetto, sarebbe orribile.

Al mattino però chiedo a M. di non andare al lavoro. Siamo entrambe vaccinate ma certe crisi, di questi tempi, fanno pensare al Covid, no?! La crisi è passata ma respiro ancora male, vale la pena di rischiare che lei vada in ufficio?

Poi sono debolissima, non ho chiuso occhio dalla crisi, circa dalle 3 del mattino. E credo di aver bisogno di lei per andare, eventualmente, in PS – prometto: prima o poi mi farò meno remore sul chiamare i soccorsi!

Al mattino chiamo la guardia medica – continuità assistenziale, ora, ma con guardia medica ci capiamo prima, vero? – che ovviamente è chiusa – eggià, io non volevo disturbarli di notte, e solo di notte e nei fine settimana lavorano! – quindi provo col mio dottore anche se non è orario. Mi rassicura sul covid e mi invia al PS.

Non devo essere messa benissimo perché dopo un primo controllo di pressione, temperatura e saturazione l’infermiera mi fionda in monitoraggio ECG. Faccio appena in tempo a darle il mio foglietto con terapia, anamnesi e allergie: ebbene sì, sono una paziente esperta!

In cima all’anamnesi ho messo “disforia dell’identità di genere”.

Per me non è certo una malattia, non mi sono MAI sentita malata e preferisco di gran lunga incongruenza di genere! Ma ho preso spunto da uno degli ultimi referti in cui la dottoressa l’ha messa in cima al lungo elenco. La mia speranza è ottenere la concessione di una sorta di alias o, almeno, una neutralità di genere.

Negli ultimi mesi ho avuto sempre riscontri positivi, rispetto la mia identità, dal personale medico e paramedico della mia ASST. Questa volta no. Quasi per niente.

L’infermiera al triage ha capito subito ed è stata gentilissima, l’infermiere al tracciato ECG non ha avuto reazioni al mio reggiseno se non per chiedermi si sollevarlo per mettere gli elettrodi.

Da lì in poi, però, chi ha letto la mia cartella si è rivolto a me al maschile. Chi mi vedeva senza averla letta, in particolare lə pazientə, mi ha invece sempre considerata al femminile.

Solo l’infermiera che mi ha accompagnata in sala visita – sì, ho avuto l’onore della scorta dal triage alla sala visita, senza passare dall’attesa interna: vantaggi da VIP con il bollino giallo – quando alla richiesta del nome le ho specificato che preferirei essere chiamata “Chiara” si è dimostrata più sensibile, scusandosi di dover usare il mio nome anagrafico sui documenti. Poi mi sembra sia rimasta abbastanza sul neutro.

Ma ad ogni passaggio, infermiera – dottore – radiologia e ritorno ti chiedono cognome, nome, e data di nascita. Per l’età vabbe’, sono vecchia, ci ho fatto l’abitudine… ma sul nome, ogni volta è dura da mandare giù e pronunciarlo.

Esistono, finalmente, le carriere alias nelle università. In attesa di avere un iter più veloce per la riassegnazione anagrafica, non potremmo introdurre gli alias anche per la tessera sanitaria – come ha recentemente fatto la Spagna –, per gli abbonamenti ferro-tranviari e per altri servizi – per non parlare del green-pass – per i quali chi controlla non ha normalmente necessità di conoscere l’identità reale dellə titolarə?

Se poi un medico non è in grado di riconoscere il sesso biologico di unə pazientə, al di là dei documenti – se e quando dovesse essere veramente necessario – forse la medicina non è esattamente il suo mestiere.

Il dottore a cui mi hanno assegnata in PS direi proprio che non ha fatto alcuno sforzo, continuando a rivolgersi a me al maschile, per quanto io abbia sempre e solo risposto e parlato al femminile, pur mantenendo cortesia e gentilezza.

Insomma se devo valutare la mia struttura sanitaria, oggi potrei dare fra otto e nove, per competenza e assistenza, ma solo un sei meno meno scarso per il riconoscimento delle identità di genere.

Violenza di genere… e di genere sbagliato

La violenza di genere è sempre sbagliata!

Questo è (stato) un anno tremendo, non solo per il covid, ma anche e forse di più per la violenza di genere e i femminicidi. Avete letto i quotidiani o ascoltato i notiziari?

Oggi è il giorno più lungo e difficile per quanto riguarda il mio lavoro.

Oggi lo è stato di più, più del solito, sia perché i dolori si sono fatti sentire molto, sia per un’aggressione verbale che ho subito.

Aggressione che ritengo di poter definire violenza di genere anche se perpetrata da donna a donna.

Il mio lavoro consiste nell’accertare illeciti, da cui scaturiscono verbali e sanzioni. Lo faccio in un piccolo comune. Lo faccio dopo un coming out, fatto mesi fa, con l’ente per cui lavoro. Le voci corrono ma, ovviamente, non vado in giro con un cartello luminescente con scritto “donna trans!”.

Al lavoro e anche in servizio attivo parlo sempre e solo al femminile.

Il mio lavoro è spesso disprezzato. Gli insulti sono frequenti ma, a volte, ci sono anche ringraziamenti per il lavoro svolto e, addirittura, scuse dai contravventori.

C’è un gruppo familiare, titolare di un’attività, che ripetutamente viola le disposizioni che io posso accertare. Dopo un lungo periodo di “tolleranza”, in particolare nei tempi difficili del covid, sono stata insultata – ovviamente in pubblico, ad alta voce – da una componente del nucleo.

Il mio livello di “tolleranza” è calato un po’, che dite: è umano?

Oggi, doppio turno, dopo aver soprasseduto ai due accertamenti del mattino, per vicinanza della fine del turno, non posso non farne uno nel pomeriggio, per continuazione dell’illecito.

Dopo il completamento dell’operazione sopraggiunge la titolare dell’attività inveendo contro di me e appellandomi in modi che, fortunatamente, non comprendo.

A distanza ravvicinata mi accusa di stalking, di accanimento verso la sua famiglia. Le faccio notare che sono loro gli unici ad essere sanzionabili in zona, in quel momento.

Allora passa alle minacce: “andrò a parlarne in Comune… e poi racconterò dei suoi vizietti al parco” – ovviamente urlando, in piazza.

Sono del Leone e gli artigli mi escono, affilati, lunghi: “mi dica, ma di che vizietti sta parlando?!”.

“Eh, lo sa!”.

“No, non lo so proprio… ma penso di quererala per questo!”.

“Sì, querela…”, e si allontana.

Ditemi voi se questa non è intimidazione… e se vi dicessi che il marito è carabiniere e partecipa all’attività familiare in barba alle disposizioni di legge?

Ora, io vivo da donna – trans – anche al lavoro. Ma temo che molti mi vedano come uomo effeminato. Credo anche in questo episodio. Da qui l’equazione: gay → pederasta → pervertito → pedofilo?!

Perché sì, è vero che sono omosessuale – lesbica! – ma se devo essere discriminata almeno sia da donna, lesbica. E comunque ogni associazione fra omosessualità – o non eteronormatività – e perversione mi fa ribollire il sangue!
Per non parlare dell’atteggiamento intimidatorio – che dite, forse un po’ mafioso? – e che un rappresentante delle forze dell’ordine dovrebbe intervenire o quanto meno segnalare ogni violazione di cui viene a conoscenza (24/7, per quel che mi ricordo per i carabinieri)?

Per fortuna stasera, per quanto fossi cotta, c’è stata l’assemblea cittadina di Non Una Di Meno – Milano, dove ho potuto convertire la mia rabbia in partecipazione e, spero, idee.

Mo’, vabbe’ mi è venuta voglia di ascoltare questo brano… sedetevi, mettetevi comodə, molto comodə! Pura poesia: e a me torna la voglia – necessità! – di suonare la batteria.
Ogni riferimento a personaggi romanzeschi è voluto e per niente casuale.