Sveglia alle quattro. Forse un po’ presto, ma non troppo: verrei arrivare là “bella” – si fa per dire – e per restaurarmi ci vuole un bel po’ di tempo, con la mia faccia e con la mia età.
Treno alle sei. Stazione buia e deserta, anche perché sono arrivata in anticipo, molto in anticipo, come al solito. Cuore che batte pesante: perché questo è un giorno importante, perché questo è l’esame di maturità due-punto-zero, perché sono al buio, truccata forse un po’ più del solito, sola, quasi al buio.
Arrivano gli habituée del pendolarismo, trattengo il fiato: non mi considerano, parlano fra di loro. Salva!
Non posso obliterare il biglietto – nessuna macchinetta funziona – quindi mi posizione in testa, per cercare il capotreno, per poi vederlo scendere dall’ultima vettura. Attraverso il treno per raggiungerlo, porgo il biglietto per la convalida, salutandolo, e compila a penna – quello che avrei potuto fare anch’io, ma per regolamento “non si fa!” – ricambiando il saluto.
Le due ragazze che stava controllando – o broccolando?: giovani, carine, bagagli da vacanza e relativa faccia stampata – mentre il capotreno “convalida” il mio biglietto mi sorridono.
OK, poteva essere di scherno, ci sta, ma non posso essere sempre paranoica: ogni tanto qualcun@ “non mi odia”, e ogni tanto qualcun@ potrebbe apprezzarmi – amarmi no, non ricambierei: “il mio cuore appartiene ad un’altra persona”, citando, più o meno, Lito in Sens8 – e mi sembra, qualche volta, di cogliere solidarietà dal genere femminile.
— cambio scena —
Arrivata all’ospedale, accettazione, registrazione al DH, esamoni del sangue e una lunga attesa: da leggere ne avevo!
E tutto bene fino alla visita psichiatrica… e anche per la visita psichiatrica, salvo il finale: il nuovo appuntamento!
Ci saranno vari incontri, mi spiega, e poi al termine delle sedute sarà lei a indicare al responsabile del centro per poter proseguire con la terapia. Peccato che la psichiatra sia disponibile solo di mercoledì, e che il mercoledì sia proprio l’unico giorno in cui io non dovrei mai mancare dal lavoro e, anzi, nel part-time.
E mo’, che faccio?
Rinuncio al lavoro?
O rinuncio a me stessa?
Ho mantenuto un minimo di dignità fino all’uscita dal padiglione, poi sono scoppiata a piangere.
Inoltre, per il lavoro dovrei tagliarmi i capelli: me l’hanno chiesto esplicitamente. Che faccio? Uso il taglio che avevo in mente? Risolverà il problema? O tiro fuori la macchinetta e li offro alla Campagna Diamoci un Taglio per la donazione di parrucche oncologiche?
L’ultima soluzione sarebbe quella più etica, ma poi riuscirei a guardarmi allo specchio, che già…