Viaggio in ambulanza, notte in PS

Ebbene sì, oggi ho vinto una corsa in ambulanza. E mi hanno pure acceso la sirena. Forse non ce n’era proprio bisogno ma ci sta… Si può mettere nel CV? Forse meglio di no.

Scrivo in ritardo di qualche mese. Non volevo raccontare, qui, questo episodio, che a lungo è rimasto molto intimo e segreto, noto solo a M. e nostro figlio F.
Me ne vergogno? Non lo so. Ma non volevo raccontarlo, però forse serve, e comunque nelle relazioni per il tribunale risulterà, non posso nasconderlo più di tanto, quindi forse è utile raccontarlo anche qui. Anche se M. mi fulmina e mi odia ogni volta che l’argomento – di seguito “l’incidente” – viene evocato.

È domenica, il clima in casa è molto nervoso. La lunga convivenza coatta ha lasciato il segno. La clausura covid si sta allentando ma sono ancora in cassa integrazione e temo lo sarò a lungo. La situazione economica è un disastro. Sono ingrassata, abbrutita, e lo stop alle attività fisiche seguita dal brutto tempo ha debilitato la mia già precaria forma fisica.

Litigo con F. e come al solito M. si schiera dalla sua parte, F. non mi parla e mi evita dal coming out, e se parliamo è scontro.

Oggi la mia schiena e il mio ginocchio si sono accordati in un crescendo devastante.

La pastiglia di ossicodone del mattino non serve a niente, né hanno effetto successive pastiglie di paracetamolo e ibuprofene. Aggiungo un po’ di vino, bianco. Sale la tensione, litigo ancora con M.

Non ce la faccio più, oltre al dolore fisico mi strugge il rinvio della visita per la TOS, la attendo dal 15 gennaio ed è rinviata sine die. Una visita cardiologica dai primi di marzo l’ho dovuta spostare a fine novembre… e questa, che fine farà?

Passo a gin e Campari.

Non ce la faccio più a sentirmi respinta da mio figlio, a litigare con lui e, soprattutto, con mia moglie che anche quando mi dà ragione prende le sue parti.

Non ce la faccio più. Troppo dolore. Troppo.

Litigo ancora con M.

Mando giù quanto ossicodone riesco con un’altra bella sorsata di gin e Campari. Miscela esplosiva.

M. se ne accorge, mi guarda furente – mai visto tanto odio nei suoi occhi – e vuole chiamare un’ambulanza. Io non voglio.

Voglio scappare, andare nei boschi, addormentarmi e smettere di soffrire.
F. mi sbarra la strada. Non posso fargli male, anche se fisicamente superiore non posso spostarlo senza fargli male. Non posso. Forse non mi odia così tanto…

Porta sbarrata, finestre inaccessibili: non potrei saltare senza rovinarmi e sto perdendo lucidità. M. riesce a contattare il 112. E arriva l’ambulanza. Non voglio andare. No. Mi oppongo.

Mi ricordo che una volta io facevo parte di quelli che soccorrono, della Protezione Civile, e mi rendo conto che loro avrebbero ben altre cose da fare invece di perdere tempo con una come me.

Non voglio essere salvata, voglio smettere di soffrire, ma so che lo faranno comunque: inutile perdere tempo ad aspettare il TSO. E hanno di meglio da fare che attendere che mi decida. Provo a dirglielo, di andare dove c’è bisogno, davvero.

Ma ovviamente mi ignorano. Non possono lasciarmi qui, non possono abbandonare una chiamata – che un po’ è quello che mi dirà M.: “non potevo non chiamare”, con un tono che un po’ suona come “ché se no avrebbero potuto incolparmi”.

Mi arrendo e salgo sull’ambulanza. Il viaggio è piuttosto lungo, sia perché, da quel che potevo vedere e capire, hanno fatto un giro lungo, sia per un po’ di traffico… e vinco un tratto a sirene spiegate.

L’equipaggio, sapendo della mia transizione, si è sempre rivolto a me al femminile. Lo stesso anche in pronto soccorso, almeno per la dottoressa che mi ha presa in carico, per qualche infermiera che era stata informata e anche la psichiatra che mi ha visitata il mattino seguente.

Sì, perché dopo lavanda gastrica e una quantità esagerata di carbone attivo e lassativi – di cui vi risparmio gli esiti – mi hanno tenuta una notte in osservazione. Ricordo di aver chiesto, piangendo, di non mettermi in un reparto maschile ma non ce n’è stato bisogno visto che lo stanzone di osservazione era misto.

In periodo di covid non è il massimo passare la notte in PS. E infatti dalla stanza in cui ho – si fa per dire – dormito, il mattino dopo portano via una paziente per il reparto osservazione sars-cov-2, con il personale giustamente bardato e noi… vabbe’, per fortuna non era nel letto a fianco. 😷

Quando il mattino dopo M. è venuta a prendermi all’ospedale mi ha scaricato addosso tutta la sua rabbia. Ho sentito le ferite del suo odio per quello che ho fatto o, meglio, provato a fare. “Odio” come controparte dell’amore, quando ferito.

Sì, mi rendo conto di averla ferita. Di aver spaventato e ferito sia lei che F., ma anch’io mi sentivo ferita, mortalmente ferita e sofferente.

Ma poi, “cos’ho fatto”? Ho tentato di uccidermi?

Io credo di no. Perdere la vita poteva essere sì un effetto collaterale, ma non l’intento: io volevo smettere di soffrire. Le pastiglie, la morte, potevano essere un mezzo o una conseguenza. Non mi spaventa la morte.

Certo non volevo ferire né M. né F., né tutte le altre persone che, forse, ne avrebbero potuto soffrire. Volevo solo smettere di soffrire, sono egoista?

M. ha sempre sostenuto che il suicidio è un atto di viltà. E il suo comportamento, in questa situazione, è perfettamente coerente con il suo pensiero.

Ma una definizione così tranchant esclude a priori di valutare le motivazioni che possono portare al gesto, così come può essere considerato egoista tanto il farlo quanto l’impedirlo solo per evitare responsabilità o anche solo per comodità.

Non fraintendetemi: sono molto contenta di essere ancora qui, di amare mia moglie e i miei figli per quanto mi sarà concesso. Un po’ meno di soffrire ancora, dei miei dolori, delle difficoltà economiche, delle incertezze.
Ringrazio M., F. e il personale sanitario per avermi salvata.

Ma rivendico il mio diritto, esclusivo, a decidere della mia vita, senza dover essere sottoposta a giudizio e, tanto meno, pregiudizio.

O sbaglio?