Dopo aver chiesto un parere anche al mio avvocato, ho pensato di fare un altro coming out con la mia azienda, parlando con il direttore del personale.
Non sono tenuta a farlo, non finché non ci sarà la sentenza e dovrò comunicare i miei nuovi dati anagrafici e fiscali.
Ho un po’ di timore nel farlo: sono a tempo determinato e non avrebbero certo bisogno di rischiare una causa per discriminazione per liberarsi di me. Ma d’altra parte non c’è comunque alcuna certezza sul lavoro, di questi tempi.
Non ne ho il “dovere” ma ne sento il “bisogno”. Necessità di essere sincera, trasparente e, soprattutto, di essere finalmente libera di essere di quella che sono senza più nascondermi.
Inoltre il mio collega, nonché supervisore, lo sa già da tempo e non vorrei metterlo in imbarazzo se l’azienda venisse a saperlo altrimenti. E l’imbarazzo sarebbe più che condiviso, in quel caso.
Ieri pomeriggio mi sono decisa a chiamare il direttore operativo che gestisce anche le risorse umane. Essendo una questione personale e delicata gli chiedo, via messaggio, quando posso chiamarlo per parlargli in modo riservato e mi dà appuntamento per stasera alle 18.
Lo chiamo all’ora fissata ma non risponde. Poco dopo mi arriva un messaggio in cui mi chiede se può chiamarmi più tardi. Certo che sì, “quando vuole e può: io sono a casa”.
Passano le 19, le 20, le 21 e anche le 22. Niente!
Sono già nervosa e in ansia da ore. Sono stanca, con un livello motivazionale che ha iniziato a scavare sotto le suole.
Sono emotivamente esausta: tenersi dentro un coming out per trentadue ore è un po’ come trattenere un tappo, già uscito per metà, di una magnum di spumante, dopo averla agitata, sotto il sole del deserto.