Sala codice rosso

Anche stanotte praticamente non ho dormito.

La mia barella è parcheggiata di fronte alla porta della Sala Rossa, quella in cui arrivano tutti i codici rossi.

Visioni e suoni di morte e sofferenza. La porta troppo spesso è aperta. Vedere in diretta un massaggio cardiaco non è come quando lo fanno in TV: non sono attori ma persone. Sangue, dolore, grida e morte sono reali.

Aggiungendo le luci sempre accese, il battere incessante dei bip dei monitor, le voci concitate delle emergenze, i lamenti e le grida di dolore alla scomodità della barella, alle conseguenti ammaccature su fianchi e spalle, al dolore di schiena, la tosse e la mancanza di fiato, dormire è un’impresa eccezionale.

In pomeriggio arriva un paziente in pre-ricovero. Dalla voce, con spiccato accento del basso varesotto, mi sembra quasi un mio conoscente ma non è lui.

Dall’aspetto mi ricorda prima Piero Pelù poi Carlo Verdone in qualche suo personaggio “coatto”. Decisamente l’atteggiamento è un mix fra il coatto romano e il bauscia alto-milanese.

Passa il suo tempo urlando al telefono in viva voce, raccontando fatti personali come avere la candida alla bocca, problemi con i denti ma che “tanto gli basta la lingua per leccare ‘qualcosa’”.

Non so se vantarsi della candida e contemporaneamente di saper leccare sia un buon metodo per far colpo. Però il suo atteggiamento – da spaccone, secondo me – pare fare breccia fra qualcuna delle giovani del personale che gli concedono sorrisi e attenzioni.

Dal mio punto di vista è solo un altro elemento di rumore e disturbo.
Mi disturba anche ogni volta – spesso – che colgo il suo sguardo puntato su di me, e certo non per la mia bellezza seducente – i miei capelli, fra l’altro, ormai ricordano quelli dei pupazzetti troll di moda qualche anno fa – e ogni volta che passa mi sento scansionata ai raggi X, finché non mi chiede di poter usare il mio carica cellulare e gli rispondo col mio vocione, non proprio da soprano.

A fine pomeriggio mi fanno un quarto tampone.
“Quattro? – gli chiedo – ne ho già tre negativi!”.
“Sì, ma questo è per il pre-ricovero, è la procedura”.
“Effettivamente potrei averlo preso qui, e anche in triage covid ero in mezzo a due positive…”.
“Già, appunto!”.
Dài, almeno esco da qui fra poco.

L’anticamera dell’Inferno

I tamponi – due: sia quello rapido che quello molecolare – sono negativi e appena ricevuto l’esito, verso le 2 del mattino, mi catapultano fuori dall’area covid, nel pronto soccorso “pulito” – si fa per dire.

Sembra l’anticamera dell’Inferno: letti al completo e barelle – fra cui la mia – ammassate ovunque, senza alcuna separazione fra uomini e donne.

Qui mi sembra che la temperatura sia più fresca ma soprattutto mi sento un po’ in imbarazzo a causa di tutta quella gente e mi sento un po’ gli occhi addosso.

Appena mi sono sistemata, indosso dei pantaloni leggeri da tuta, sotto la camicia da notte.

Non ho dormito per tutta la notte e passo la giornata dolorante, tossendo, senza fiato. Non riesco a stare sdraiata più di tanto sulla barella, per la schiena, ma appena faccio due passi il fiato se ne va.

Mi fanno un altro tampone: per le mie condizioni non si fidano dell’esito dei precedenti. Gli altri pazienti mi girano al largo – per quanto possono in un corridoio – guardandomi un po’ torvi… non so se per me o per paura del covid.

Verso sera l’imbarazzo è finito o almeno lo ignoro: mi sento sempre gli occhi addosso – mi sembrano interrogativi, come se mi domandassero “cosa sei?” – ma sento anche meno freddo e decido di togliere i pantaloni, rimanendo solo con la camicia da notte, che in realtà è un abitino estivo in maglia di cotone. Mi sento più libera e forse rispondo ai dubbi altrui(?).

Anche qui, in pronto soccorso, da subito mi sono presentata e ho parlato al femminile, avvisando medici e infermieri che sono in TOS.

Alla fine della giornata, dopo aver tolto i pantaloni, quasi tutto il personale mi parla al femminile o almeno non usa il maschile, salvo un’operatrice che si è probabilmente risentita quando, dopo aver ignorato la mia lamentela per non aver ricevuto la cena – dopo aver saltato anche colazione e pranzo – mi sono rivolta alla dottoressa di turno per avere chiarimenti, reclamando del cibo e, soprattutto, dell’acqua visto che mi avevano dato solo una bottiglietta da mezzo litro la sera prima, nel triage covid.

Senza respiro

Sono ammalata dal 4 dicembre, dopo un paio di giorni di preavviso con raffreddore e tosse.

Il dottore mi ha consigliato tre giorni di paracetamolo, prima di pensare al covid, ma nel frattempo il fiato si accorcia sempre di più, appena mi muovo.

Oggi sono decisamente peggiorata, il dottore non c’è e chiamo la guardia medica che mi indirizza al 112. Vinco la seconda corsa in ambulanza dell’anno – e della vita. Questa volta con calma, codice verde. Come l’altra volta il percorso mi sembra molto lungo, più di quello che avrei fatto io: che siano pagati a tassametro?

Respiro male, a fatica, se non sto immobile cala subito la saturazione… ma sapete qual’era la prima preoccupazione in ambulanza? In che reparto mi metteranno? Non vorrei finire in quello maschile ma capirei il disagio delle altre pazienti in quello femminile.

Finisco al triage covid, lo stanzone è misto e alla fine rimarrò da sola. Il problema di genere non si pone, per il momento.

In visita mi presento al femminile, specificando che sono in un percorso di adeguamento di genere, e fra i medicinali che assumo comunico quelli della TOS Femminilizzante. Nessuna reazione da medici e infermieri ma continuano a parlarmi al maschile 😢 o almeno così mi ricordo: sto male e sono molto frastornata.

Un po’ meglio forse con l’infermiera dell’accettazione e di guardia che, gentilissima, riesce anche a recuperarmi qualcosa da mangiare.

Prima di cercare di addormentarmi – benedicendo la mascherina per gli occhi che ho pensato di portare – mi cambio e metto la mia camicia da notte.

Non sarà molto ma mi aiuta a rilassarmi. Anche se non riuscirò veramente a dormire almeno mi riposo.

Visita psichiatrica

Visita psichiatrica al CPS. Per protocollo covid la “visita” è al telefono e non in studio. Un po’ strano, senza neanche un video, ma ci sta.

L’avvocato mi ha consigliato di ottenere un certificato o una relazione da una struttura pubblica in cui risulti che sono sana di mente, senza psicosi, o simile. Ed eccomi qui.

Direi che è andata bene. Il dottore si ricorda ancora di me, dalla prima visita.

Si consulterà con la psicologa che mi ha seguita, leggerà la relazione del mio psicologo e mi farà avere la relazione, con diagnosi di disforia di genere, entro il prossimo 15 dicembre.

Un altro passo è fatto!