Sono andata in ospedale per una visita di controllo, anche se sarebbe meglio dire di valutazione, dopo il mio ricovero dello scorso dicembre.
Oggi volevo essere chiara: sono Chiara!
Mi sono truccata, vestita bene – sono stufa di camicia da notte – jeans – divisa – jeans – camicia da notte – anche se solo per andare in ospedale. Anche questo è un po’ rompere la routine in lockdown.
Pensavo di essere sufficientemente chiara riguardo a mostrare la mia identità ma la giornata non parte molto bene.
Mi vede l’infermiera, chiede l’impegnativa, controlla poi “ok, signor deadname, si accomodi, e attenda”.
Non lo fanno per me: è un’abitudine dell’ospedale di Varese e di tutta l’ASST Settelaghi: chiamano per nome, invece che per cognome, credo per farci sentire più a nostro agio, un tocco di familiarità e confidenza per aprire all’empatia… solo che il mio nome che leggono sul modulo non vorrei fosse più usato.
Sentirmi chiamare al maschile, davanti ad altre persone, in particolare quando cerco di sprizzare femminilità, è piuttosto imbarazzante, ma ci sono anche un po’ abituata.
Inizia la visita e la dottoressa si rivolge a me al maschile nonostante io, come al solito, parli al femminile. Solo quando mi spoglio per essere auscultata e nota il reggiseno inizia a parlarmi al femminile.
E sì, che sulla lettera di dimissione dall’ospedale che le ho dato all’inizio della visita, insieme alle altre carte, il lungo elenco delle mie patologie inizia con “disforia di genere, attualmente in trattamento ormonale”.
Che io non mi sia mai sentita malata, riguardo la mia identità di genere, credo sia inutile ripeterlo, altrettanto che la disforia sia stata riclassificata in incongruenza di genere, depatologizzandola definitivamente – anche se ICD-11 entrerà in vigore l’anno prossimo. Ma tant’è.
Finita la visita vengo affidata a tre infermiere – tutte gentilissime! – per fissare gli appuntamenti per gli esami richiesti e la visita di controllo.
Noto che per un esame ho l’esenzione e un’infermiera torna dalla dottoressa per aggiungerla. Ritornata mi accorgo che c’è ancora la spunta su “non esente” senza controfirma e torna nuovamente dalla dottoressa.
Mi scuso per il disturbo e mi rispondono: “non si preoccupi cara… ah, scusi, signore”. “No, no, va benissimo ‘cara’, preferisco!”. Sorridono.
Potevo essere più chiara di così? Sì, lo sarò, quando “Chiara” sarà il nome indicato sulla mia carta d’identità.
Finito il trattamento per eliminare la barba, credo proprio sarà il caso di lavorare sulla mia voce.