Tutto per niente?

New look estate 2021Per niente no: stamattina è stata una delle poche volte in cui sono riuscita a guardarmi allo specchio e, quasi, piacermi. In genere il mio specchio è abitato da un alieno. Motivo per cui odio essere fotografata, perché viene sempre fuori lui, l’alieno. Non io.
Ma stamattina sono riuscita anche a farmi un selfie, nonostante il mio antiquato cellulare, in cui, con un piccolo ritocco alla luminosità e nonostante la pappagorgia, mi sono vista non dico bella ma quasi carina.

Anzi no: per l’età che ho direi che almeno carina lo sono.
E grazie ai vostri gentilissimi commenti, suggerimenti e like sui social la mia autostima è cresciuta un zic, un bel zic!*

Però…
Eh, a questo punto, non ve lo aspettavate un “però”?
Già!

Però, stasera, dopo cena, mentre stavo finalmente infilando la collana che indosserò (o avrei dovuto indossare) mi è arrivata notizia dall’avvocato che l’udienza, per emergenza covid, si terrà in modalità remota, tramite Windows Teams.

Non me ne voglia Bill ma odio Microsoft, odio Windows e odio anche di più Teams – sia chiaro: non dipende dal 5G dei vaccini, non è istigazione all’odio né softwarefobia ma una mia personale opinione che nasce dal mio profondo amore per Linux e per l’open source. L’affetto che ho per voi non cambia se usate o meno M$Win… ma ricordatevi del mio sorrisetto in foto – che noto ora – quando vi si incarterà il PC sul più bello. 🤭

In ogni caso, in previsione dell’udienza ho comperato gonna, scarpe, calze; sto cercando un makeup che non mi faccia sembrare un mostro; mi sono tagliata i capelli e… mo’ dovrò mostrarmi solo dietro al PC?

Che magari mi bastavano solo un paio di filtri per Teams?
Bill, scusa, ci sono i filtri, vero? Sai prima scherzavo!

Sapete, inizialmente speravo che, per la pandemia, si potesse risolvere tutto in remoto. Odiavo l’idea di dovermi mostrare, far vedere – e giudicare – quanto sia donna agli occhi altrui: io di dubbi non ne ho! Odiavo comunque l’idea di doverlo dimostrare, magari in una sfilata di stereotipi di genere in cui molte donne – me compresa – non sempre si riconoscono.

Ora mi sono preparata, ho fatto acquisti, ho sperimentato e… sì, ok, potrò utilizzare tutto in altre occasioni – l’avrei comunque fatto, mica mi posso permettere di comprare vestiti per un solo evento – ma magari sarei riuscita a pagare qualche bolletta in più.

Però, dài: ora la mia autostima non si nasconde più, strisciando, e inizia a farsi i muscoli… occhio eh!


Zic: espressione dialettale milanese per esprimere una modica quantità, es. “Giusto un zic, un cicinìn”.

Vaccinazione covid

C’è voluto un po’ di tempo per potermi registrare, come persona fragile, per prenotare la vaccinazione – e ancora sto aspettando la chiamata dall’unico centro ospedaliero dal quale sono seguita, più o meno ufficialmente, al quale ho chiesto di essere inserita negli elenchi come indicato dal medico curante.

Ci sono stati anche vari tentativi di iscrivermi via portale della Regione – sì, quella dell’eccellenza, riguardo la Sanità! – e per farla breve, alla fine, quando ormai stava arrivando la possibilità di iscrivermi per fascia di età hanno aggiunto sul portale la possibilità di auto-dichiararsi come “fragili”… non avrei mai voluta passare davanti a chi ne aveva più urgenza ma, sulla carta, per le mie patologie, sarei dovuta essere calendarizzata subito dopo gli ultra-ottantenni.
Finito il pippone politico passo alla cronaca che più mi riguarda.

Arrivo al centro vaccinale, accompagnata da M., e devo dire che l’organizzazione sono state eccellenti.

Mi accolgono tuttə al femminile, con un po’ di titubanza la tavolo della reception, dopo aver visto il nome sul foglio di prenotazione, che mi chiede il tesserino sanitario – anche – per conferma.

Nel percorso si rivolgono sempre al femminile, finché non entro nella stanzetta per la vaccinazione. La dottoressa al computer, dopo aver visto carte e tesserino, passa al maschile. Io continuo con il femminile.

La dottoressa che mi sta per inoculare il vaccino invece prosegue al femminile e apprezza la mezza-manica corta della mia maglia: “l’ho messa apposta, mi sembrava più semplice per voi”.
E anche la collega si adegua al femminile.

Per la vaccinazione mi sono truccata, leggermente, orecchini carini, il mio solito abbigliamento, borsa… Insomma: sono nata XY, il mio corpo è quel che è ma il suo linguaggio urla “SONO UNA DONNA”, e inizia a funzionare.

Salute trans* e di genere

Oggi hanno pubblicato, sull’edizione on-line di «Lotta Continua», un mio articolo. Non fa di me una giornalista, neanche pubblicista… ma ne sono comunque un po’ orgogliosa, posso?

Parlo di salute trans*, partendo dalla mia esperienza ma esplorandone molte altre e cercando di fare un punto sulla situazione legale delle transizioni.

Parlo anche di salute di genere, tema che avrei voluto approfondire, ma per tempi stretti (e per mia scarse capacità) ho dovuto chiudere l’articolo senza potermi informare maggiormente.

Visto che fa comunque parte del mio percorso, lo riporto qui – spero vi possa interessare:

La salute è uguale per tuttə?
Viaggio nella salute trans e di genere

18 giugno 2018: l’OMS pubblica la nuova versione dell’International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems (ICD-11), o Catalogo Internazionale delle Malattie e dei Problemi di Salute, in cui la Disforia di genere viene riclassificata come Incongruenza di genere e spostata dal capitolo delle malattie mentali in quello della salute sessuale. Secondo l’OMS è necessario mantenere la classificazione nell’ICD-11 per riconoscere le significative cure necessarie alle persone trans*, che non si limitano al solo percorso di adeguamento ma durano per tutta la vita.

ICD-11 è stato approvato il 27 maggio 2019 ma entrerà in vigore solo nel gennaio 2022. Per quanto il nuovo catalogo abbia concluso il percorso del movimento STP (International Campaign Stop Trans Pathologization), in Italia, pur riconoscendo la conquista della de-psichiatrizzazione, viene criticata, a partire da Arcigay Rete Trans, la residua patologizzazione della condizione trans*.

D’altronde, pur essendo in vigore da anni il DSM-V (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) che ha declassificato il “Disturbo” di identità di genere in “Disforia”, sembra che molti centri psichiatrici utilizzino ancora il DSM-IV ed è quindi più che lecito un sospetto sui tempi di recepimento e applicazione dell’ICD-11.

Io non mi sono mai sentita malata ma ho avuto bisogno di una diagnosi psichiatrica di Disforia di genere con nulla-osta per l’accesso alla Terapia ormonale sostitutiva (TOS)… che sarà a vita!

Questa terapia è sempre stata considerata in “fascia C”, a totale carico del* cittadinə (e troppo spesso, in particolare prima della Legge 164 del 1982, accessibile solo per canali clandestini, con un fai-da-te che ha falciato numerose vittime) fino alle determine AIFA del 23/9/2020 pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale s.g. n. 242 del 30/9/2020, che hanno stabilito la gratuità delle TOS.

Peccato che le determine prevedono che la terapia debba essere recepita dalle singole Regioni ed erogata da centri multidisciplinari riconosciuti, a seguito di una diagnosi di disforia di genere… riportando, ancora una volta, alla condizione patologica le persone trans*, con tempi di attesa spesso insostenibili.

Peccato che, anche con la scusante covid-19, per molte Regioni questa non sia certo una priorità. Al momento solo Piemonte, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Campania e Sardegna hanno recepito e attuato la determina AIFA, mentre l’Emilia-Romagna aveva già una legge regionale, che ne stabiliva la gratuità dal 2019, entrata in vigore quasi contemporaneamente all’AIFA.

Io, che vivo in Lombardia, potrei mettermi l’anima in pace, non fosse che, essendo seguita dal servizio di adeguamento identità di genere dell’ospedale di Niguarda, per iniziativa propria del centro, posso ritirare i farmaci gratuitamente tramite la loro farmacia ospedaliera: l’ho fatto dopo l’ultima visita di controllo, ma il viaggio mi costerebbe più della terapia…

E quanto dura il percorso di affermazione dell’identità di genere? La risposta, corale, decisamente è “troppo!”. In Italia vengono seguiti due protocolli: ONIG (Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere) e WPATH (World Professional Association for Transgender Health). Entrambi prevedono la certificazione psichiatrica della Disforia di Genere.

Il WPATH ha un percorso più breve, con un’attenzione rivolta anche alle persone non-binarie – concetto difficile da spiegare ma pensate alle sfumature fra l’identità maschile e femminile come le mille possibili tra il bianco e il nero – mentre ONIG prevede un lungo percorso, con almeno un anno di terapia psicologica o psichiatrica, mesi di “test di vita reale”, ovvero vivere in panni femminili con documenti maschili o viceversa, con tutto l’imbarazzo che ne consegue quando ci si deve presentare legalmente.

Mentre WPATH in Italia è seguito solo dai centri di Genova e Messina, ONIG è più diffuso ma ormai ritenuto, soprattutto dallə utenti, obsoleto tanto che anche il MIT (Movimento Identità Trans), socio fondante dello stesso, nel 1998, ha deciso di abbandonarlo, alla ricerca di nuovi percorsi.

La L. 164/82, ben più obsoleta di ONIG e WPATH, in realtà non determina i tempi di terapia e “real life test” ma prevedeva la sterilizzazione forzata delle persone e la riattribuzione chirurgica del sesso prima di autorizzare l’adeguamento anagrafico, richiesta fortunatamente demolita in particolare da sentenze della Corte Costituzionale che ne hanno riconosciuta una palese violazione dei diritti umani.

Per tutto questo, e tanto altro, serve un superamento della L. 164/82 – ai tempi rivoluzionaria, ottenuta grazie all’impegno del MIT, del Partito Radicale e di tantə attivistə, ma nata come sanatoria di una situazione esistente e non più criminalizzabile (prima della legge 164/82, le persone trans* erano accusate del reato di camuffamento e mascheramento) – che preveda una piena autodeterminazione delle persone, rigettando completamente la condizione patologica e in particolare la psichiatrizzazione, mantenendo, ma solo su richiesta, un supporto psicologico di accompagnamento al percorso che deve essere sostenibile se non completamente gratuita e da professionistə specializzatə.

Ci sono proposte del MIT ed elaborazioni in corso da parte di Arcigay Rete Trans che prendono come riferimento le leggi di Malta, Islanda e Portogallo o quella Argentina, uscendo dal contesto europeo.

In ogni caso dovrà essere garantita la piena sostenibilità (o gratuità) delle terapie che sono necessariamente “a vita” – che come tali dovrebbero assimilate, per il trattamento economico, alle malattie croniche – e degli interventi chirurgici da parte di personale adeguatamente formato nel servizio sanitario nazionale, come valida alternativa all’utilizzo di strutture private, troppo spesso troppo distanti per poter garantire assistenza in caso di necessità.

Attualmente, per la chirurgia di adeguamento MtF, il SSN prevede un unico intervento di mastoplastica additivo ma le protesi dovrebbero essere sostituite ogni dieci anni circa… e no, non stiamo parlando di mera estetica.

Per quanto riguarda la chirurgia genitale, se orchiectomia e isterectomia sono interventi normalmente praticati, per vaginoplastica, vulvoplastica, falloplastica e metoidioplastica i centri specializzati sono pochissimi in Italia e ancor meno quelli in cui si possono effettuare in regime SSN, con tempi di attesa biblici – ora peggiorati anche dalla crisi pandemica – e, a volte, con risultati insoddisfacenti per inesperienza.

Immaginatevi una persona che attende da una vita il “permesso” dello Stato per adeguare il proprio corpo alla sua identità di genere e quando finalmente riceve la sentenza che lə autorizza deve attendere altri due o tre anni per potersi affermare pienamente. Certo il discorso cambia per chi si può permettere l’accesso a strutture private, prevalentemente all’estero… ma parliamo di alcune decine di migliaia di euro.

Per chi eventualmente se lo stesse chiedendo, la transizione NON è una scelta, è una necessità!

Le terapie ormonali che vengono attualmente utilizzate per l’adeguamento di genere, sia mascolinizzante che femminilizzante, sono state progettate per ben altri scopi e i bugiardini – pardon: foglietti illustrativi – non citano assolutamente le indicazioni, posologie, effetti previsti e avversi, per le necessità trans*.

Farmaci e terapie, ma anche la diagnostica, a parte ovviamente quelli prodotti esclusivamente per la salute femminile, vengono progettati e testati principalmente, se non esclusivamente sulla fisiologia maschile, ignorando le differenze con quella femminile.

Per esempio negli uomini i classici sintomi di un infarto sono dolore al torace e al braccio sinistro mentre i sintomi di un infarto nelle donne – spossatezza, affanno, disturbi del sonno, intorpidimento degli arti – sono meno conosciuti, anche perché gli attacchi di cuore sono ancora considerati una patologia tipicamente maschile mentre le donne, dopo la menopausa, sono molto esposte al rischio cardiaco.

Siamo ancora molto lontanə da una Medicina di genere, prevista anche dalla L. 3/2018, ma rimasta per lo più sulla carta, nonostante i decreti attuativi del giugno 2019, come recentemente denunciato in un webinar organizzato dallo SPI CGIL.

Altre problematiche si incontrano ad ogni visita medica. Devo dire che nella mia ASST l’accoglienza, una volta percepito che il mio genere non è quello anagrafico, salvo rare eccezioni, il personale si dimostra accogliente e sono convinta ci sia stata una sensibilizzazione su questi aspetti.

Rimane comunque il problema della chiamata, giunto il proprio turno: che sia per nome – come fanno spesso nella mia ASST per mostrare più empatia con l’assistitə – o per Signor/Signora Cognome, l’imbarazzo è forte quando mi alzo, in abiti femminili con un appello maschile e, ovviamente, non solo per me.

Il problema si acuisce in caso di ricovero: nonostante la mia difficoltà a respirare, in un recente episodio, la prima preoccupazione in ambulanza era “non mi metteranno nel reparto maschile, vero?!”. Può sembrare stupido ma, per chi vive la mia situazione, non lo è.

In caso di ricoveri programmati, anche se alcune strutture si dimostrano accoglienti, comprendono e cercano di risolvere il “problema”, non ci sono linee guida prestabilite e la gestione è demandata all’iniziativa e al buon cuore delle singole persone responsabili.

Su questo tema, forse, il covid-19 ha semplificato il problema essendo stati ridotti i posti letto per stanza, almeno nelle strutture più moderne, anche se la riduzione di posti letto non è certo la soluzione per una Sanità più efficiente, anzi!

Infine, ma non meno importante, quando i documenti vengono aggiornati e con esso codice fiscale e sesso anagrafico, le persone trans* perdono alcuni diritti alla prevenzione: ci sono donne con la prostata e uomini con l’utero ma questo non è previsto per questa importante pratica, perché le chiamate per gli screening avvengono in base al sesso riportato sulla tessera sanitaria.

Il problema, forse, è proprio nell’identificare le persone in base al sesso – e sarebbe più corretto parlare di “sesso assegnato alla nascita” – che, nel caso di persone trans* o intersessuali può decisamente essere un’informazione fuorviante.

Esiste il sacrosanto diritto all’oblio delle persone che hanno ottenuto la rettifica anagrafica: non sarebbe più semplice lasciar fuori il genere dalle politiche di prevenzione sanitaria, proponendo a tuttə l’accesso alla prevenzione?

chi.ca

Natale in zona rossa

Odio il Natale, lo sapete. Non odio la festa in sé ma il senso della festività è tutt’altro che commerciale e luculliano.

Quest’anno, forse unica positività della pandemia, i festeggiamenti sono stati solo della famiglia stretta. Non fraintendetemi: amo i miei suoceri – con i quali eventualmente avremmo festeggiato – e mi vogliono bene… ma non ce la fanno ancora a parlarmi al femminile. E in ogni caso, ogni pranzo natalizio ha suoi protocolli, spesso per me indigesti. Quindi, in questo caso, ben venga l’isolamento.

Ed è stata una bella giornata, senza stress e senza fatica – sushi d’asporto e gastronomia – finché, complice un po’ d’ebrezza alcoolica e alimentare, durante una pausa del banchetto, un po’ per scherzo un po’ – tanto – per desiderio – lei oggi era bellissima! – ho detto a M. che stasera avremmo potuto “bruciare un po’ di calorie”.

Nessuna risposta verbale, ci hanno pensato corpo, viso e occhi.
Espressione fra lo schifo e il compatimento.
Forse avrei avuto più successo proponendole di tuffarci in una calda vasca di letame fresco.

Ingoiata anche questa, soffocando pianto e lacrime per non guastare la festa, rientro nei miei ranghi. Oltre a qualche bacio non posso andare, anche se negli ultimi giorni erano più morbidi, affettuosi. Mi sono illusa. Ho sbagliato!

A fine giornata non posso che essere contenta sia finita anche se so che fra un anno ci sarà un altro Natale.

***

Appena pubblicato questo articolo mi propone un altro brindisi, poi mi bacia, chiede un abbraccio, mi ribacia e mi saluta per la buonanotte.

Lo so, mi dovrei accontentare: sono molto fortunata ad averla ancora al mio fianco. È solo che ogni tanto sento il desiderio di stringerla, accarezzarla, coccolarla,… fare l’amore.

Non è un generico bisogno di sesso, è voglia di farlo con lei, solo con lei. Lei e solo lei risveglia i miei sensi. La amo, mi piace, mi attira… La TOS ha neutralizzato l’apparato genitale ma il cervello è ancora attivo! Che ci posso fare?

Dimessa, torno a casa!

Anche la compagna di stanza ha parlato con me sempre al femminile e amabilmente – nonostante il mio aspetto orrendo, dopo quasi una settimana di ricovero.

Sto meglio ma non mi sono ancora ripresa, più che altro mi hanno fatta uscire (cit.) “prima che mi prendessi qualcos’altro in reparto” e – aggiungo io – per liberare letti, ché domani in Lombardia si riapre in zona gialla!
L’idea di uscire dalla dependance dell’Inferno, per quanto deluxe, mi è piaciuta subito.

Scopro a casa che anche sul foglio di dimissioni, ovviamente intestato anagraficamente, vengo citata al femminile!

Sarò fortunata – a parte la malattia, ma comunque sono uscita da là – però farsi conoscere, con pazienza – io ho continuato a parlare e rispondere esclusivamente al femminile per tutto il ricovero – senza imporsi e senza astio, sembra essere un buon metodo per farsi riconoscere e accettare.

Almeno con me ha funzionato.

Dependance deluxe (dell’Inferno)

Se prima ero parcheggiata nell’anticamera dell’Inferno ora sono nella sua dependance deluxe, non certo in Paradiso.

Ma sono in stanza da sola, letto comodo, finalmente. Almeno fino alle 3.30 stanotte ho dormito bene. La stanchezza è comunque tanta e, cessate le risate di ieri sera, grida e lamenti si sentono anche qui.

Perseverando con il femminile e anche grazie a una copia di una nota rivista femminile che M. – quanto mi manca! – mi ha fatto avere, insieme al cambio di biancheria e alla cpap, letta o appoggiata sempre con la copertina in bella vista, alla fine ce l’hanno fatta anche qui a chiamarmi “cara”.

In pomeriggio mi hanno spostata in camera con un’altra paziente. Yep!
Non sono contentissima di non essere più in stanza singola – che sono orsa l’ho mai detto? – ma lo sono perché se mi trasferiscono con una compagna di stanza vuol dire che sono considerata negativa al covid e, a tutti gli effetti, donna!

Sì, OK, potremmo invece essere entrambe positive e potrebbero avermi trasferita solo per necessità di letti… ma una volta tanto che sono ottimista, lasciatemelo essere!