Paura e dolore

Ci ho pensato tutta la notte. E francamente pensavo di cancellare l’articolo di ieri.

Invece no. Perché riflettendo ho capito. E serve un mea culpa.

Mi rendo conto di essere tremendamente egoista: quello che sono non è colpa mia ma ancor meno sua. Mi è stata vicina molto più di ogni aspettativa.

Non posso pretendere che sia lesbica. Me ne ero illusa ma non lo è.

E di amore, per me, ne ha tanto. Forse anche più del mio per lei.

Gliel’ho letto negli occhi stamattina. L’ho sentito dal bacio.

Inizio a credere che il suo silenzio sia dovuto alle paure e al dolore che si tiene dentro. Dovrebbe aprirsi, magari con un aiuto professionale, ma non lo fa. E io la sto tenendo in trappola.

Io ho bisogno di liberarmi, ma lei ne ha ancora più bisogno e forse ha bisogno di liberarsi di me.

Non posso scaricare tutto su di lei, anche se ormai le domande in sospeso sono tante, troppe! Devo avere pazienza e rispettare i suoi tempi, anche se il mio futuro volge al fosco.

Ce la posso fare?

Futuro

Abbiamo appena finito di cenare. Siamo sole.

Mi guarda, ricambio e le dico: “sto pensando al futuro, sono un po’ preoccupata”.
Abbassa lo sguardo.

Provo a rilanciare che “lo so, non dovremmo preoccuparci del futuro – citando la parabola evangelica degli uccelli del cielo e dei gigli del campo [ndr. Matteo 6,25-34.] – ma non ci riesco”.
“Non conosco quella storia”.
Riassumo brevemente.
Silenzio.

Sì, lo so, forse la colpa è mia. Forse dovrei insistere. Affrontare l’argomento, andare avanti… forzare… ma avrebbe senso?

È il MIO punto di vista. Il DANNATAMENTE mio punto di vista. E qui non c’è contraddittorio: per quel che so continua a non leggere neanche una riga del mio blog.

Ma se qui non c’è contraddittorio a casa non c’è dialogo. Bisogna essere in due per un dialogo. E ogni mio tentativo finisce nel vuoto, in un imbarazzante silenzio.

Ci amiamo ancora?

Sono conscia delle mie condizioni, economiche e di salute. E lo è anche lei. Ma l’ultima cosa che vorrei è la pietà.

Lo so, le ho chiesto molto in questi anni. Troppo, decisamente troppo! Sia ben chiaro, anzi, sarò chiara: sono io la stronza. Io mi sono illusa potesse amarmi anche da donna. Io le ho rovinato la vita. Ma sono sempre stata sincera. Fin dal primo giorno. E sono passati diciassette anni, giorno più, giorno meno. Siamo insieme da ventidue anni e abbiamo un figlio da quasi venti.

Se potessi scegliere cancellerei tutto, riavvolgerei il nastro e riprenderei la mia vita, la nostra vita, così com’era: da felice coppia etero-normata.

Ma chi vive la mia condizione lo sa: non è una scelta, si può solo scegliere di negarsi e reprimersi. Insomma: qualcunə deve farsi male. Che brutta storia è l’amore, in questi casi.

Nanna

«Ciao, vado a nanna.»
«Ma non dovevamo fare all’amore?!»
«No!»
C’ho provato…

[nda: non osate correggermi la grammatica!]

A passeggio

Una volta andavamo spesso, a camminare insieme.

Una volta avevo un altro fisico. Un altro passo. Sono arrivata a fare, a piedi, il giro completo della Ciclabile del Lago di Varese, 28 Km.
Poi sono successe tante cose, ma questa è un’altra storia, e qui si parla della mia transizione.

In tanti anni di disoccupazione, ogni volta che potevo, sono sempre andata a camminare… da disoccupata lo facevo spesso – ginocchia permettendo – e ogni volta che poteva, veniva anche M. con me.
Una volta ero io a rallentare il passo, ora arranco… ma, l’ho già detto: questa è un’altra storia!

Fatto sta che circa due anni fa ho finalmente rincominciato a lavorare e, per lavoro, cammino normalmente quattro, otto ma anche dieci e passa Km al giorno.

Contemporaneamente la nostra vicina, grande amica di M., voleva iniziare a camminare – camminare fa bene, tanto!!! – e quindi hanno iniziato a camminare loro due per piacere/salute e io per dovere/salute.

Chiedo nuovamente scusa per la lunga parentesi privata ma mi sembrava necessaria per spiegare come mai stamattina mi sia sembrato estremamente piacevole tornare a camminare con M.

Sì, è già capitato, in questi anni, di fare passeggiate insieme, ma stamattina ero io a soddisfare una sua necessità, forse solo volontà… comunque ad accompagnarla. Ed è stato piacevole tornare a camminare insieme. Nonostante il mio passo, stanco. E che in pomeriggio, per lavoro, saranno almeno altri 8 Km.

Da tempo avremmo – avrei! – bisogno di fare una lunga, rilassata, profonda riflessione di coppia. Ho alcune domande, in particolare per lei, e spunti di riflessione per tutta la famiglia.

Lo so, bisognerebbe sempre godersi il momento. Stiamo passeggiando insieme: è bellissimo, anche se, ormai, tenersi per mano, è un lontanissimo ricordo.

Entra in argomento della sua compagine del treno. Il solito più e meno. Io, però vado spesso ad accompagnarla e a prenderla al treno. Da anni ci vado, a volte, con il mio solito filo di trucco. Da tempo ci vado anche in gonna. Finora non sono mai scesa dalla macchina, con la gonna. Le chiedo se ha parlato di me al suo gruppo di viaggio. “No. Magari con X e Y potrei dirlo, ma sai che Z è leghista”.

“Ah! Quindi è meglio se non scendo dall’auto, se vengo in gonna?”.
Silenzio. Ma siamo già uscite insieme, con me in gonna, anche a fare la spesa.

A questo punto affondo: “Ma al lavoro parli di me come ‘Chiara’?”.
Apro un’altra parentesi personale: ho lavorato anni fa, come operaia, lei contabile, nella stessa ditta, anche se allora ero “operaio”.

“Eh, io l’ho detto solo alla famiglia – i titolari – non so se l’hanno detto agli altri”. È una ditta familiare, ci sono altri due operai e quello che era il mio capo-officina, allora, che è appena ritornato in ditta “parla dei ‘ghei’ come ‘quelli là non li capisco’”. Ai tempi mi stimava. Ora che sono lesbica?

“Forse sarebbe più facile introdurmi se parlassi di me come ‘Chiara’”.
“Sì, forse. Potrei… Ma, sai, faccio fatica a riferirmi a te così, dopo vent’anni, e non credo che, no, anzi: non riuscirei mai a rifermi a te come ‘mia moglie’”.
“Be’, chiamami come vuoi, basta che non ti riferisca più a me come ‘tuo marito’, questo mi ferirebbe molto, mi farebbe molto male”.
“Ah!”.

Ok, camminiamo.

Anche perché già così sono arrivata con poco fiato alla macchina, e oggi pomeriggio mi aspettano altri chilometri, al lavoro.
E le domande sarebbero troppe.

A cominciare da: “mi ami ancora?”, già chiesto l’altra sera con un “sì”, secco, istantaneo come risposta.

Per poi finire con un, forse melodrammatico: “ma sei sicura di non voler sciogliere il matrimonio e rimanere in unione?”.

Perché, te l’ho già detto: nell’unione civile, magari non sarò ufficialmente tua “moglie”, forse neanche la tua “coniuge”, ma sarà – e questo te l’ho spiegato bene! – un’unione omosessuale. Sei davvero sicura? Io sono lesbica, tu no!
Ti amo. Tu?
Ti vergogni di me?

Sì, abbiamo bisogno di parlare e, nonostante ripetuti inviti, non leggi queste pagine, neanche quando proposi di stamparle per te.

Lasciamo maturare il pargolo, poi partirà per le vacanze e avremo tempo e modo di parlare. Spero.

Pride: orgoglio?

Oggi ho perso il secondo di una coppia di orecchini che comprai tempo fa, con motivo “pride”: fondo rainbow con simbolo lesbico.

Il primo mi cadde tempo fa in camera da letto. Si deve essere infilato in qualche interstizio diabolico dei mobili.

Oggi mi sono accorta del secondo, al lavoro, scendendo dall’auto: ho sentito qualcosa all’orecchio, la farfallina era ancora attaccata all’orecchio ma l’orecchino – con tanto di perno – non c’era più.

L’ho cercato a lungo di fianco alla macchina: come può essere caduto l’orecchino prima della farfallina? Boh!

Credo che a volte alcune cose, alcune oggetti, specie quelli a cui ci si affeziona maggiormente – come questo paio di orecchini! – scompaiano per un motivo.
Magari non sono scomparsi, ma si sono spostati in altra dimensione?

Il motivo va cercato nella vanità? O nell’orgoglio?

Be’ sì, all’orgoglio ho pensato: ieri, il giorno della mia prima udienza per la riassegnazione anagrafica e chirurgica, era anche l’inizio del mese del Pride.

Primo di giugno, come l’anno scorso, quando iniziai la TOS.
Pride: orgoglio.

Orgoglio: un peccato grave, secondo la Chiesa.
Orgoglio: ne ha rovinati più lui che il petrolio, secondo Vasco Rossi.
Orgoglio LGBTQIA+: questo è il Pride.

Mi sono chiesta: “sono orgogliosa di essere trans?”.

No! Perché dovrei doverlo? Essere trans è, per me, una normale condizione umana. Non me ne vergogno ma non ne posso neanche essere orgogliosa.

Sono invece orgogliosa di combattere socialmente e politicamente per il mio diritto di esistere, di essere rispettata, di non essere insultata o picchiata, perché qualcuno mi ritiene “diversa”.

Orgogliosa di combattere, oltre che per me, per e al fianco di tutte le persone LGBTQIA+, e non solo: anche per e al fianco di tutte le donnə, di tutte lə personə discriminate per etnia, religione, abilità, genere.

Mi manca quell’orecchino, anzi mi manca quel paio di orecchini. Ma sono un motivo, uno stimolo in più di orgoglio per la mia, la nostra lotta. Anche se non li posseggo più. E forse lo sono anche maggiormente, proprio per non esserne più in possesso: li ho persi ma non ho perso l’orgoglio che rappresentavano.

Non posso che concludere rimandando, ormai ritualmente, al discorso di Nomi, che citai in occasione dell’ultimo Pride celebrato in piazza: ci ritorneremo, per le strade!

Non posso però dimenticare che oggi è anche la festa della Repubblica, il 75o anniversario del referendum che la sancì, e del primo voto concesso, in Italia, alle donne.

Viva la Repubblica! Viva lə Donnə!

E già che ci siamo: abbasso il cis-etero-patriarcato! 🏳️‍🌈

Prima udienza in tribunale

Oggi è il giorno. Atteso a lungo, finalmente è arrivato.

Mi sono alzata presto, ben prima che suonasse la sveglia, volevo prepararmi, essere bella, e ce ne vuole! Ma non riuscirò a ripetere il risultato dell’altro giorno. Forse sono troppo agitata, forse l’idea di essere filtrata da una webcam diminuisce l’impegno, e la mie capacità di makeup sono scarse.

Udienza alle 9.30, collegamento previsto, d’accordo con l’avvocato, dalle 9.15. Poco dopo le 9 provo ad aprire il link. Rimango in attesa.

Dopo un quarto d’ora provo a contattare l’avvocato; neanche lui riesce a collegarsi, parla con la cancelleria, contatta la giudice.

A un certo punto mi riferisce che lui riesce a entrare nella stanza, dopo aver reinstallato Teams su un vecchio PC. Io continuo a tentare ma non riesco ancora. Provo a installare la app sul telefono, sperando che regga.

Alla fine riesco a collegarmi, almeno per qualche minuto di presenza: il problema era che via PC – Windows 10 – per accedere a Teams devo usare un account, ma per accedere alla stanza – per come allestita – dovevo essere un’utente ospite, anonima.

Mi rimane qualche perplessità a riguardo, anche perché, a un certo punto, è apparsa in udienza un’altra avvocata che non c’entrava assolutamente niente… alla faccia della mia privacy. Ok, un’udienza è sempre un atto pubblico, ma se è a porte chiuse le porte devo essere chiuse, anche quelle virtuali.

L’importante comunque è che sia riuscita a collegarmi e che l’avvocato fosse riuscito a farlo da prima.

I miei timori erano fondati e la richiesta di CTU è stata avanzata dalla giudice, con opportuna opposizione del mio avvocato che, grazie alla sua bravura ed esperienza, è riuscito a far ritirare la richiesta.

Una volta collegata, la giudice mi ha chiesto se volevo rilasciare una dichiarazione. L’avvocato mi aveva raccomandato di arrivare rilassata, ma dopo tutto lo stress accumulato per cercare di collegarmi ero agitatissima.

Lì per lì non mi veniva niente, francamente speravo in una domanda a cui rispondere… Mi chiede se confermo quanto riferito dall’avvocato e sì, credo che abbia fornito una descrizione molto accurata della mia situazione, nella sua relazione.

Aggiungo che so di essere in età avanzata, che questo potrà comportare problemi per la fase chirurgica, ma che troppo tardi ho scoperto che orientamento sessuale e identità di genere sono caratteristiche ben distinte e che potevo essere donna e lesbica pur essendo nata maschio, prendendo finalmente coscienza di me quando ormai avevo circa quarant’anni.
Poi ho atteso, per amore dei miei figli, che raggiungessero un’età abbastanza adulta prima comunicargli la mia volontà, la mia necessità di adeguamento all’identità di genere. E che comunque sono ormai decisa e determinata a proseguire il mio percorso, per completarlo e vivere finalmente come donna a tutti gli effetti.

Ascoltate le mie parole la giudice ha fissato un’udienza conclusiva (spero di aver capito bene il termine, perché “conclusiva” mi piace) per fine settembre.

Dovrò però presentare, per quella data, una nuova relazione psichiatrica, rilasciata da autorità pubblica o convenzionata e accreditata, in cui risulti che oltre alla disforia e all’esclusione di altre patologie psichiatriche, sia accertato che la mia volontà è determinata e irrevocabile.

A poco è servita la replica del mio avvocato, che non sono esattamente una ragazzina e che alla mia età le cose sono in grado di ponderare con maturità e consapevolezza. Ma almeno un riconoscimento, da parte della giudice, della mia maturità e della ponderatezza della decisione dovrebbero essere finite a verbale.

Chiusa la video-chiamata ho parlato telefonicamente con l’avvocato per circa mezz’ora sull’andamento dell’udienza e sulle cose da fare.

Poi, come un palloncino che ha perso il legaccio, mi sono sgonfiata velocemente – ma senza pernacchie – e afflosciata, vuota.

Sono rimasta priva di energie fino a sera, pur essendomi concessa una pennica post-prandiale.

Devo ringraziare il laboratorio di Rete Donne Transfemminista, questa sera con tema “Questione di potere – cultura dello stupro e consenso” alla quale ho voluto partecipare nonostante la stanchezza e l’assenza totale di forze fisiche e psichiche.

E ho fatto bene, perché invece di addormentarmi sulla tastiera mi sono ricaricata e, come ho commentato, nel pour parler successivo all’incontro, “mi hanno ricaricato l’anima”.

Trovo talmente utili e costruttivi questi incontri di formazione che voglio condividere con voi il calendario dei laboratori e la possibilità di rivedere tutti gli incontri che si sono già tenuti, dal loro canale youtube.

Tornando all’udienza, non è andata male e non è andata bene.

Ora serve un rinnovato impegno e avrò bisogno di tutto il vostro sostegno… che sono già sicura di avere.

Vi voglio bene, e la vostra vicinanza l’ho sentita, la sento. Grazie! ❤

Friday, I’m in love

Ti guardo a lungo
nell’oscurità, qui,
stesa al mio fianco.

Vorrei sfiorarti,
accarezzarti,
ma non posso, lo so.

Ancora una volta
mi chiedo
se ne valga la pena.

Tempo fa temetti di perdere tutto per non ottenere niente.
Non è vero: sto ottenendo me stessa.
Ma che prezzo!

Quanto costa nascere trans* e pure lesbica?
#temposcaduto #moltopiùdizan

È venerdì, sono innamorata
(The Cure, Friday I’m in love)
Dedicata a me, dedicata a lei!

Catcalling

Nell’essere riconosciuta come donna ci sono onori – graditi, come per me la gratificazione personale – e ovviamente oneri – sgraditi, che non dovrebbero toccare a nessuna persona.

Non è la prima volta che succede: ho già avuto attenzioni poco piacevoli in stazione, in attesa del treno. Non sono di certo attraente, né mi vesto in modo succinto, né assumo atteggiamenti particolari – che sono le classiche accuse rivolte alle vittime di molestie e violenza – ma l’essere riconosciuta semplicemente come donna fa di me, per certi uomini, un soggetto sottomesso al potere e alle volontà del maschio-padrone.

Al contrario dell’universo femminile – pochi uomini possono capire di cosa parlo. Molti, troppi, lo fanno anche convinti di fare semplici complimenti, di gratificare la donna – o la persona che loro identificano come tale – che li riceve.

Per questo non è raro che, in stazione, le donne sole tendano, istintivamente, a fare gruppo fra perfette sconosciute. L’avete mai notato?

Non mi piace il termine catcalling, tristemente di moda in questi giorni, ma spesso il vocabolario anglosassone ci offre scorciatoie per definire concetti complessi con una semplice parola. Molestie di strada, la traduzione italiana, non rappresenta, nell’immaginario comune, la totalità delle situazioni che catcalling invece identifica, a partire dal fastidio che provoca, come quello dello stridulo verso dei gatti in calore, da cui deriva il termine.

Oggi ero in servizio, in divisa come al solito. Verso la fine del servizio si avvicina una persona, visibilmente alticcia, che cerca di chiacchierare. Quando gli faccio notare che è senza mascherina e che deve allontanarsi si inalbera e inizia a insultarmi: “stronza”, “parassita”, “vai a lavorare” – che poi è quello che stavo facendo. 🤔

L’essere ubriaco non è una giustificazione al suo comportamento.
Esattamente come l’essere ubriaca non può cancellare l’accusa di stupro.

Insiste, come un disco rotto, e quando torna ad avvicinarsi lo minaccio di chiamare i carabinieri. “Chiama chi vuoi, stronza!”… e inizia con gestacci rivolti ai suoi genitali. 🤢

Si allontana, poi ritorna all’attacco e rincomincia…
“Ora ha rotto!”, prendo in mano il telefono e fortunatamente si allontana definitivamente. Mi accorgo solo a questo punto dell’attenzione dei passanti, in particolare una signora che al mio “ha rotto” mi sostiene con “altroché, ha proprio ragione!”.

No, non mi sono sentita in pericolo, ma…
Non ero sola, siamo in primavera, c’è ancora luce… provate a immaginare questa scena d’inverno, nessunə in giro: perché le donne devono subire certi atteggiamenti, certe situazioni?

No: la soluzione non è chiudersi in casa o vestirsi col burqa. La soluzione è nell’educazione al rispetto di tuttə, indipendentemente dal genere, dall’orientamento, dall’etnia, il credo, l’età, dal fisico… Educazione e cultura che devono partire dalle famiglie e proseguire a scuola e in ogni struttura formativa e lavorativa.