Ti conosco mascherina!

No, non siamo a carnevale. E, no, non è uno scherzo.

Ma, cercando il lato positivo, o almeno un motivo per sorridere, oggi per la prima volta, al supermercato per la spesa settimanale, mi hanno sempre chiamata “signora”, parlandomi al femminile.
E hanno continuato a farlo anche quando rispondevo con timbro di voce non proprio da soprano.

No, non ho fatto nessuna plastica facciale miracolosa: ho solo indossato la mascherina d’ordinanza. Che poi è una di quelle che servono a poco – anche se da oggi pare siano state rivalutate anche quelle fai-da-te, purché limitino la diffusione dello spray in caso di tosse o starnuto – ma fa stare più tranquilli, anche se non è omologata.

La mascherina, distribuita a prezzo di costo tramite il mio Comune, è prodotta da una azienda di abbigliamento della zona che si è riconvertita all’uopo: infatti credo sia ricavata dai top dei costumi da bagno, riadattata in formato mascherina.

Vi ricordate che è ancora in vigore il divieto di ingresso in strutture pubbliche, amministrative o sanitarie, con il volto coperto (intendendo, per lo più, il velo islamico)? Bene, perché ora è più facile che non vi facciano entrare a viso scoperto! Ci sarebbe quasi da ridere, se non fossimo in una situazione tragica. Cito a proposito l’unica frase araba che ho imparato, in Val Brembana: “’a q’la ’aca làh in d’la ca’ làh!”.

Credo comunque che potrei adottare la mascherina come mio capo di abbigliamento usuale, citando anche M¥ss Keta… ma la prossima volta devo ricordarmi che non è il caso di mettere il fondotinta – non lo metto tanto per vanità, quanto per coprire quella terribile ombra nera che rimane anche dopo un’accurata rasatura 😭 – quando la indosso, ché poi mi tocca candeggiarla 😉.

Quarantena

Non sono passati quaranta giorni dall’ultimo articolo. Ma siamo in quarantena e fa quasi lo stesso, quindi parto con una citazione musicale.

Quaranta dì, quaranta nott, che potrebbero essere sessanta, ottanta o forse più: non cambia molto.

Non cambia molto il significato di “ci penso e ti dico”.

Che, lo sapevo, è sempre stato “no”, da subito, ma “ci penso” sembra fare meno male. Sembra. A lei. Forse.

L’ho sempre saputo, il significato, perché poi il “ti dico” che avrebbe dovuto seguire il “ci penso” non è mai seguito. Mai. E l’ho sentito tante volte.

Poi l’altra mattina c’è stata la conferma: ripetendo una proposta di un paio di mesi fa la risposta è stata “ti avevo già detto che no, non mi interessa”.
In realtà la risposta era stata, indovinate ? “Ci penso e ti dico”.

La domanda è imbarazzante, sia per me che per lei. Ma quando gliel’ho fatta era da un po’ che non prendevo il luppolo e spesso avevo un fastidioso “alzabandiera” mattutino. L’offerta è stata stupida e fuori luogo. Forse poi mi sarei sentita peggio ma l’intento era sincero: se non mi vuole più come donna magari posso offrirle qualcosa con quel rimasuglio di uomo – fisiologico – che ancora sono.

Visto che i preservativi che abbiamo in casa sono scaduti da anni le ho chiesto se pensasse fosse il caso di prenderne di nuovi, per provare a fare l’amore con me. La risposta la conoscete. E non sapremo mai se, effettivamente, sarei mai riuscita a farcela ma nella mia lunga transizione negli ultimi rapporti etero che abbiamo avuto io invertivo mentalmente – lei complice – il verso della penetrazione.

Spero di non averla offesa, forse sì, ma siamo in simbiosi da così tanto tempo che mi aspetterei una sgridata, magari un ceffone – anche se non è da lei – non un finto “ci penso”.

Fatto sta che, dopo aver ricevuto la nuova fornitura di luppolo l’alzabandiera è rimasto e forse peggiorato (mi capita anche di notte, quando devo alzarmi per fare pipì). L’altra mattina era persistente – a me dà un fastidio terribile – e le ho ricordato la proposta ma non ho voluto commentare la sua risposta anche perché siamo in quarantena. E forse lei semplicemente avverte il mio disagio.

I rapporti sono già tesi per il vivere insieme coatto, adolescente incluso, 24/7, come si dice, peggiorati dalla mia disforia, dai miei dolori crescenti per la proibizione delle passeggiate, dal mio pessimo carattere, dalla mia transizione, dalla mancanza di tempo per me da sola, dalla mancanza di coccole, di sesso.

Oggi mi sono comunque concessa una passeggiata, breve, più o meno nei limiti: almeno finché non quantificano, in metri, “nei pressi dell’abitazione” – il paese in cui vivo è talmente piccolo che in qualunque direzione in due minuti a piedi, ma anche meno, si può uscire dall’abitato, se non dai confini – ma non è servito così tanto, se non, almeno spero, alle mie ossa.

E quando mi è esplosa la tristezza, stasera, ha cercato di consolarmi ricordandomi che ho iniziato la transizione. Sì, vero, ma: ho il nulla osta da gennaio e la prima visita a maggio; non posso farmi prescrivere gli esami dal dottore perché non posso andarci per il covid-19 e temo di andare a Niguarda, sempre che non cancellino l’appuntamento, solo per farmi prescrivere gli esami e tornare dopo altri sei o sette mesi di attesa; non posso permettermi il percorso privato perché oltre a non poter pagare le visite non potrei pagarmi la terapia.

Inoltre – le ho detto – mi rendo conto di aver perso ogni relazione con nostro figlio; sto perdendo lei perché ho distrutto – o sto distruggendo – il nostro rapporto (il nostro “fantastico” rapporto l’ho solo pensato).

Potrei aggiungere che non ho vie d’uscita: anche con la paga del mio lavoro – fortunatamente, almeno, mi hanno rinnovato il contratto – facciamo fatica ad arrivare a fine mese, figuriamoci se posso pensare di togliere il disturbo ed andare a vivere per i fatti miei.

Posso solo pensare di togliere il disturbo. Punto.
E mi sentirei in colpa, perché lei mi riterrebbe una vigliacca.

Posso solo ipotizzare, perché lei non legge queste inutili parole: gliene ho parlato più volte di questo blog e più volte le ho chiesto di leggerlo. Ma a lei da fastidio leggere a computer, allora le ho proposto di stamparglielo e mi rispose che ci avrebbe pensato lei.

“Ci penso”. Ecco, appunto! Cosa dicevo?
Non lo fa per cattiveria, ma è così che fa.

Quanto vorrei che mi leggesse, sia in queste pagine che dentro.

Stallo

È da quasi un mese che non vi tedio con la mia vita, la mia transizione, i miei problemi. Un po’ per pigrizia, ma soprattutto per non annoiarvi con il nulla, visto che non è successo niente degno di cronaca. E ci sono cronache ben più interessanti e urgenti in questi giorni.

Mi sono ultimamente definita come “sospesa”, non dalla scuola (della vita) ma nel senso di “in attesa”. In attesa di cosa? Be’ ricordate che sto cercando di cambiare genere, non solo nella mia testa, non solo fra le amicizie che mi hanno accolta, ma anche per tutto il mondo, a partire dall’apparato burocratico?

Da giorni non mi sento più sospesa ma in stallo. Differenze? Sono entrambi stati di sospensione, ma lo stallo, almeno in senso aeronautico, come lo intendo io, è una stasi che precede il precipitare, incontrollabile, verso lo schianto del velivolo, salvo manovre che richiedono grandi abilità da parti del pilota.
Abilità che mi mancano.

Così come mi mancano le capacità e le risorse per proseguire, in tempi brevi, il mio percorso di transizione, il mio “volo”.

Sono passati quasi due mesi da quando ho avuto il nulla osta per la TOS, e ne mancano altri due alla visita in cui, forse, mi prescriveranno la terapia o, se va male, mi prescriveranno gli esami da valutare alla visita successiva – dopi altri sei o sette mesi – per arrivare, sempre forse, alla prescrizione.

Questo è il percorso SSN, quello pubblico. Ci vuole pazienza, ci chiamano “pazienti”. Ma quanta pazienza ci vuole? Quanto tempo ho io, alla soglia dei cinquantasei anni?

Alternative? Ovviamente il percorso privato! “Bello poter scegliere”, recitava il Celeste – ora ai domiciliari dopo sentenza definitiva – “per chi se lo può permettere” ho sempre aggiunto io, allora e soprattutto adesso!

Sì, con le convenzioni, tramite associazioni, si trovano prezzi (quasi) accessibili… per chi ha un lavoro vero, retribuito come si deve. Ma anche 60-70 euro a visita (contro almeno il doppio, senza convenzioni) sono troppi per chi, a fine mese, deve decidere quali bollette pagare. E di visite, esami e poi farmaci ne servono tanti, e la terapia ormonale è “a vita”. E se vengono prescritti dai privati, li devi fare e acquistare privatamente.

Ho valutato varie opzioni ma oltre a pregare – ci credessi e ne fossi capace – per un lavoro vero – e anche la possibilità del mese scorso sembra sfumata – non mi rimane che la trappola della speranza (cit.): sono troppo vecchia e brutta per pensare di prostituirmi (e mi farei troppo schifo!), troppo scassata e imbranata per pensare a una rapina (potete immaginare che fine farebbe una donna come me, per quanto brutta, in un carcere maschile?).

A fine mese scade il contratto di lavoro, che dovrebbe essere rinnovato. Ma dopo una settimana di malattia, per influenza, ora ho altre due settimane, fino al 25 marzo, senza lavoro a seguito dei decreti covid-19, al momento in ferie forzate, in trepida e speranzosa (ancora!?) attesa si converta in cassa integrazione o altri ammortizzatori sociali. Ma se lo stop proseguisse oltre? Quante possibilità ho che l’azienda per cui lavoro non decida di procrastinare il rinnovo a quando le attività riprenderanno a pieno regime.

Per l’influenza ho anche dovuto rinviare il controllo cardiologico – da marzo a fine novembre! – e, visti eco-cardiogramma e test da sforzo passato benissimo, non sarebbe un problema se non fosse che il mio cuore ogni tanto batte all’impazzata… saranno solo i pensieri, ma nel frattempo si insinua fra di essi.

Mille pensieri, mille paure, nessuna certezza. Neanche su chi sono, dopo cinque mesi a entrare uscire dai panni e ruoli maschile del lavoro. Sul futuro di coppia, dopo un lento ma continuo distacco di M., accelerato dall’isolamento per la possibilità che l’influenza fosse qualcosa di più.

Sono giorni che non dormo o quasi, e che comunque non dormo decentemente: o mi sveglio all’una e mi rigiro fino alle sei, o vado a letto alle due, leggo per almeno un’ora e comunque mi sveglio alle sei. Poi, ogni tre-quattro giorni forse crollo, sfinita, e riesco a dormire un po’ di più.

L’insonnia, ho scoperto, la condivido con una mia recente amica, per il momento virtuale, con cui condivido anno e, forse, città di nascita, tipo di percorso e orientamento, anche lei sposata con figli e, anche se lei ha terminato il percorso prima che io iniziassi realmente il mio, pare abbiamo molte cose in comune, avremo lo stesso oroscopo?

Inizialmente davo colpa alla febbre e al paracetamolo. Ora credo sia solo ansia, pensieri, muri che si alzano sul mio percorso. Stanchezza. Trappole.

Sono in stallo e mi preparo a precipitare.
Ma non ho il paracadute.

Sgamata?

Lavoro in appalto presso un ente ma, per quanto non colleghi, è inevitabile salutarsi, parlarsi, come tali, con i dipendenti diretti.

Lavoro per quell’ente indossando la maschera da uomo e per indossarla mi sono anche dovuta tagliare i capelli.

Quando sono fuori dal lavoro però mi libero della maschera e rientro nei miei panni, nelle mie scarpe.

Solo che stasera, facendo la spesa in un vicino supermercato con moglie e figlio, ho incrociato una non-collega. Che mi ha riconosciuta, sorriso e salutata. E io altrettanto.

Però avevo, anche se cappotto e borsa sono sempre gli stessi, indossato orecchini evidenti, un filo di trucco e – invece delle scarpe da lavoro – mocassini e calze velate.

Il suo sorriso era vero: credo sia una persona molto positiva. Il mio forse un po’ imbarazzato: le chiacchiere volano veloci in quegli ambienti, e il mio contratto scade tra un mese.

Prima o poi doveva succedere.
Prima o poi avrei dovuto dirlo.
Confido ancora nell’altro lavoro.

Ma, se mi conoscete, sapete quanto mi sia preoccupata.
Odio nascondermi!!!
Odio mentire.

Burocrazia

Oggi dovrei riposare. Invece no!

Non è per il riposo, in sé, né per quella lunga attesa e altrettanto lunga discussione con l’addetto allo sportello.

Dopo trent’anni scopro che un’utenza di dove abitavo ancora è ancora intestata a me. Lo scopro grazie a una diffida a saldare una bolletta non pagata ricevuta via PEC, e scopro che l’attuale intestataria ha firmato, più volte, vocalmente, contratti a mio nome, nel così detto “mercato libero” (libero di fare queste cose?), senza chiedere uno straccio di documento e senza neanche verificare la residenza.

Non è il tempo, non è il riposo, ché anche l’altro ieri sera ho buttato via un’altra ora per iniziare a capire cosa succedeva a uno sportello periferico che mi ha spiegato la situazione ma non poteva agire, per non parlare dello stress di tutta la scorsa giornata – quella già più pesante nella settimana lavorativa.

È che, anche nel giorno del mio riposo, mi sono dovuta proporre al maschile, perché ovviamente quel contatore di trenta anni fa non può essere intestato alla persona che sono e che, per la burocrazia, se va bene, sarò – anagraficamente – fra qualche anno.

Certo essere maschio-contro-maschio in alcune situazioni può essere un vantaggio, specie quando cercano di darti a bere che essendo il contatore intestato a me il contratto con un’altra società, nel mercato libero, è perfettamente valido, anche se firmato illegalmente e senza alcuna verifica documentale, da una donna che non ha nessun legame né legale né parenterale con me.

Ma sono stufa di (dovere) essere “maschio”, non ce la faccio. Forse non sono una femmina, in senso stretto, genetico, ma sono una donna. E voglio esserlo. Per tutto il mondo!

Svuotata

Oggi mi sono svegliata senza energie. Sarà che devo lavorare tutto il giorno, dalle 9.30 alle 18.30, con tre lunghe ore di pausa pranzo.

Non abbastanza per tornare a casa senza correre, troppe da far passare.
Senza energie fisiche e completamente svuotata anche emotivamente.

Triste, e non so perché. Sì un motivo c’è, forse anche più di uno, includendo qualche evento lavorativo, ma non può essere solo quello.

Disforia, beh… sì: si chiama disforia… ma fra poco (si fa per dire: 1 gennaio 2022!) il termine OMS sarà incongruenza… poi non sarò più disforica?

Sarà il vento di questi giorni? Io amo il vento: mi ricorda l’Irlanda.

Passo dopo passo – e sono tanti in sei ore di turno passate a camminare – mi sento vuota, completamente vuota.

Sole!

Sì, oggi forse il sole mi ha ricaricata come se avessi un grande pannello solare sul viso: l’ultima ora di pausa l’ho passata su una panchina in modalità girasole e mi sono lasciata ricaricare. Senza cappotto, solo il maglione, temperatura ideale con un po’ di brezza, residuo del vento mattutino che mi raffreddava gli impianti di tanto in tanto.

Sole, lago, montagne. Non sarà un bel lavoro ma lo faccio in un bel posto.

Colloquio di lavoro

Ho passato anni, troppi, senza lavoro, a inviare cv e rispondere a inserzioni – più di quattrocento all’anno, quelle catalogate – senza aver quasi mai avuto ricevuto risposte, salvo il primo e secondo colloquio che ho fatto per ottenere il mio lavoro attuale.

E… no, non era per la mia incongruenza di genere, nessuno o quasi lo sapeva. Ma quando la data di nascita rivela che hai più di cinquant’anni, non importa il tuo orientamento sessuale, e neanche il tuo genere, né l’identità di genere.
Importa che sei vecchiah! (O vecchioh!)

Ho avuto lo stesso problema a quarant’anni. Ma alla fine ce l’ho fatta a tornare a lavorare – in un modo o nell’altro – a cinquanta, ora cinquantacinque, è stata molto, molto più dura: decisamente troppo giovane per la pensione – “nell’altro” indica, fra l’altro, anche la mancanza di contributi – e decisamente troppo vecchia per lavorare.
Sembra una frigna? Be’ spero per voi che non dobbiate mai verificarlo!

Oggi ho fatto un colloquio di lavoro. Il precedente è stato confermato e da ottobre lavoro, almeno fino a marzo. Prima: il vuoto assoluto, a parte varie selezioni ex art. 16 in cui spesso sono finita come la prima esclusa, per graduatoria.

Oggi ho fatto un colloquio con una corporate europea, una multinazionale che nelle dichiarazioni mette la diversità fra i suoi punti di forza. A livello corporate, sulla carta, ma siamo in Italia e l’accettazione delle diversità, fra le persone, non sempre è la stessa delle corporate per cui lavorano.

Ho passato giorni a pensare se presentarmi come uomo anagrafico o come donna effettiva. Per tutta la mattina ho pensato se e quanto truccarmi – sapete che “quanto” è sempre e comunque “leggero” – e fino al parcheggio ho considerato come presentarmi, anche durante il colloquio ho avuto la tentazione di presentarmi come Chiara. Ma ha vinto il curriculum maschile.

Non so come andrà la selezione, sicuramente non sono l’unica candidata, molto probabilmente ci sono persone più qualificate di me per quel lavoro. Però ci conto. Ci spero, anche se “la speranza è una trappola!” (cit.).

Spero in un secondo colloquio, e credo in quell’occasione non riuscirò più a mentire e che cercherò di spiegare chi sono.

Voi cosa avreste fatto al primo colloquio? Vi sareste dichiarat*?
Cosa fareste al prossimo colloquio? Prima o poi salterà fuori, io amo essere sincera.

Ormai quasi tutte le mie amicizie e buona parte dei (pochi) parenti sanno della mia transizione. Solo al lavoro mi “vesto” da maschio – non intendo solo la divisa – e ci soffro.

Ho bisogno di lavorare per vivere, “prima la sopravvivenza” mi disse la psichiatra, ma per me vivere vuole anche dire “essere me stessa”.

Ha più senso rischiare di non ottenere un lavoro perché ti dichiari in anticipo o perderlo perché ti dichiari dopo?

Posso continuare a mantenere due vite dentro di me? Una lavorativa, una personale e affettiva?

Quanto potrei reggere?

Estasi e sofferenza

Dell’estasi me lo ricordo bene, molto bene. Uno dei rari ma, quando capitano, sempre speciali risvegli.

Mi ricordo anche della sofferenza fisica, dei dolori, forti.

Non mi ricordo della sofferenza morale – annunciata in un post su facebook ma sono in ritardo con gli aggiornamenti di questo blog – insieme a quella fisica: si vede che non era così grave… o che ho bevuto abbastanza (troppo, come al solito) da dimenticarmene.

Devo smettere di bere, almeno in vista degli ormoni. Provo con il mantra che mi ha insegnato Antonia Monopoli allo Sportello Trans di ALA: “fare la transizione vuol dire volersi bene”. Devo volermi bene! Non devo volermi bere!!!

Gruppo AMA, finalmente!

Dopo la pausa delle feste stagionali e l’appuntamento precedente in cui ero la sola amata, oltre al coordinatore, e in astinenza – ma neanche tanto – del supporto psicologico del CPS finalmente si è riunito il gruppo AMA di Varese, dove AMA sta per “Abbiamo Molte Anime” e/o “Auto Mutuo Aiuto”.

Ne avevo proprio bisogno per quanto di corsa, perché la domenica lavoro dal primo pomeriggio.

Oggi c’era un ospite, Diego, attivista che ha presentato un’associazione in via di formazione per il coinvolgimento e l’informazione delle strutture sanitarie pubbliche nel percorso di transizione.

Ha ascoltato e contribuito alle nostre storie con commenti e suggerimenti.
Ascoltando la mia ha trovato similitudini con una sua amica, Laura, anche lei sposata con figli prima della transizione, e mi ha suggerito di entrare in contatto con lei. L’ho fatto, ed effettivamente abbiamo tanto in comune, a partire dall’età. Ed è una persona molto accogliente, Grazie!

Unico neo è che alla fine, a parte Diego, siamo sempre gli stessi e pochi.

Ci aggiorniamo: novità ce ne sono sempre, ma le nostre storie, le esperienze le conosciamo già.

Dobbiamo crescere, allargare il gruppo, coinvolgere nuove persone. Come? L’interrogativo è rimasto nell’aria. Cercherò di dare ancora più visibilità all’evento. Ma non sono un’influencer e raggiungo un pubblico molto ristretto. Mi aiuterete per il prossimo evento?

Sospesa

Mi sento sospesa. Di nuovo, ma questa volta non come “sospesa in aria” o “sullo stendibiancheria”, sospesa come… come “a scuola”.

Mi mancano le coccole, da quasi un mese. Mi manca il sesso, e chi fa da sé non fa per tre.

Mi manca un aiuto psicologico: per anni ho sempre pensato di farcela da sola, ma da quando l’ho perso – per una mia stupida mancanza, addormentandomi invece di andare all’appuntamento – mi manca, quasi come l’aria, ogni tanto.

Ci sono potenziali, ottime opportunità in arrivo… ma mi manca qualcosa.
Manca l’aria, manca un grido, manca un dio… (cit. Alberto Radius, Nel ghetto)

Mi manca la stabilità: ho un mondo che mi riconosce come donna, un mondo di mezzo che mi conosce come persona, e il lavoro che mi conosce come uomo. Oscillo come un quanto, e tanto più so dove sono tanto meno posso sapere dove sarò. Sono troppo vecchia per queste cose: quando studiavo Fisica la materia era statica, non un’oscillazione né un calcolo probabilistico!

Non mancano invece i dolori, ma forse servono a ricordarmi che sono viva e che devo lottare: ora e sempre Resistenza!

Certo che resistere fino a maggio per la visita in cui forse mi prescriveranno la TOS… sarà lunga!